Posts tagged ‘democrazia’

8 Maggio, 2013

Statale di Milano: la Polizia sgombera gli studenti dell’ex-Cuem

by gabriella

stataleQuello che segue è l’articolo che Marco Bascetta (Il Manifesto, 8 maggio 2013) ha dedicato ai fatti accaduti lunedì scorso alla Statale di Milano, cioè alla rottura simbolica con il significato di uno spazio consacrato alla formazione e al sapere – dunque all’autonomia e alla libertà – consumatasi con l’intervento della forza pubblica. Aggiungerebbe vergogna, se confermato, quanto sostenuto dal TG3 delle 14,00, che ha indicato nella necessità di liberare i locali dell’ex libreria autogestita per fare spazio ai distributori automatici di alimenti, la ragione della richiesta di intervento del Rettore.

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Perfino nella Spagna franchista degli anni Sessanta l’ingresso della guardia civil nelle Università era motivo di scandalo. L’idea che negli atenei e negli istituti scolastici problemi e conflitti non dovessero essere affrontati per via militare è stato ed è un principio di etica pubblica che, a maggior ragione, non dovrebbe mai essere disatteso negli stati democratici. Il tabù è stato certamente infranto, ma abbastanza sporadicamente e mai in casi innocui come l’occupazione di qualche aula da parte degli studenti.

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24 Aprile, 2013

Noam Chomsky, Can civilisation survive really existing capitalism?

by gabriella

Traggo da Come Don Chisciotte, la traduzione del discorso tenuto da Noam Chomsky il 13 aprile 2013 al Collegio Universitario di Dublino in occasione del conferimento della UCD Ulysses Medal. Nell’evidenziare l’incompatibilità della democrazia e della stessa sopravvivenza del pianeta con il capitalismo reale (che lo studioso distingue da quello ideale, espressione delle teorie politiche ed economiche sorte nel XVI° secolo), Chomsky si sofferma sulla manipolazione dei pubblici in relazione ai grandi temi contemporanei (giustizia, cambiamento climatico), concludendo che è probabilmente per contenere la crescita della consapevolezza sociale che nel XXI secolo è stato demolito il sistema educativo nella maggior parte dei paesi capitalisti.

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Può la civiltà sopravvivere al capitalismo reale? [Si veda anche Le 10 leggi del potere].

Il capitalismo oggi esistente è radicalmente incompatibile con la democrazia.

Vi è il “capitalismo” e poi c’è il “capitalismo reale”.

Il termine “capitalismo” è comunemente usato riferendosi al sistema economico degli USA, che prevede considerevoli interventi dello Stato, i quali vanno dai sussidi per l’innovazione creativa alla politica assicurativa “too-big-to-fail” (troppo-grandi-per-fallire, ndr) del governo per le banche.

Il sistema è altamente monopolizzato e ciò limita ulteriormente la dipendenza dal mercato, in modo crescente: negli ultimi 20 anni la quota dei profitti delle 200 imprese più importanti è aumentata enormemente, riporta l’accademico Robert W. McChesney nel suo nuovo libro Digital disconnect.

In questo momento “capitalismo” è un termine comunemente usato per descrivere sistemi nei quali non ci sono capitalisti; per esempio il conglomerato-cooperativa Mondragón nella regione basca in Spagna, o le imprese-cooperative che si espandono nel nord dell’Ohio, spesso con il sostegno conservatore – entrambe esaminate in un’importante ricerca dell’accademico Gar Alperovitz.

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8 Aprile, 2013

Gustavo Zagrebelsky, La cultura, patto fondativo della nostra convivenza

by gabriella

ZagrebelskyDa Micromega la riflessione platonico-socratica di Zagrebelsky sull’art. 33. «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»: il fondamento di ogni convivenza non può che essere la ricerca non strumentale (dunque autenticamente libera) nei suoi legami con la cittadinanza e la democrazia.

La società non è la mera somma di molti rapporti bilaterali concreti, di persone che si conoscono reciprocamente. È un insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono come facenti parte d’una medesima cerchia umana, senza che gli uni nemmeno sappiano chi gli altri siano. Come può esserci vita comune, cioè società, tra perfetti sconosciuti? Qui entra in gioco la cultura.

Consideriamo l’espressione: io mi riconosco in… Quando sono numerosi coloro che non si conoscono reciprocamente, ma si riconoscono nella stessa cosa, quale che sia, ecco formata una società. Questo “qualche cosa” di comune è “un terzo” che sta al di sopra di ogni uno e di ogni altro e questo “terzo” è condizione sine qua non d’ogni tipo di società, non necessariamente società politica. Il terzo è ciò che consente una “triangolazione”: tutti e ciascuno si riconoscono in un punto che li sovrasta e, da questo riconoscimento, discende il senso di un’appartenenza e di un’esistenza che va al di là della semplice vita biologica individuale e dei rapporti interindividuali.

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27 Marzo, 2013

Riccardo Antoniucci, Intervista a Marc Crépon su Jacques Derrida

by gabriella

JacquesDerridaDal Rasoio di Occam, l’intervista di Riccardo Antoniucci a Marc Crépon, direttore dell’École Normale Supérieure, a margine del convegno sul pensiero politico di Jacques Derrida, tenutosi ad Atene dal 24 al 26 gennaio 2013.

Professor Crépon, la prima domanda che vorrei porle, e che, trattandosi di una questione sul senso, non è aliena da una certa “bêtise”, riguarda proprio i due aggettivi con cui si è voluto qualificare il pensiero di Derrida durante questo convegno: “politico” ed “etico”. Possiamo tentare di chiarire meglio il nesso esistente tra il pensiero di Derrida e i campi descritti dai due termini. “Pensiero politico” e “pensiero della politica” non sono la stessa cosa, ovviamente. Eppure, di solito, un pensiero non è detto “politico” se non è anche riconosciuto, parallelamente, come “pensiero della politica”, o del politico. Cioè come pensiero delle condizioni e delle tecniche proprie all’azione politica in un contesto storico determinato. Per cui spesso la “filosofia politica” si riduce a una serie di riflessioni su problemi che sono posti dall’attualità della pratica di governo o dell’amministrazione della società. Tuttavia, questo parallelismo non sembra operativo nel pensiero di Derrida: la sua riflessione, senza essere stata “condizionata” da temi provenienti dal dibattito politico, li ha piuttosto “rilanciati”, riverberati, in un’altra forma; addirittura, in alcuni casi, li trasformati, passandoli al filtro del suo singolare approccio filosofico. Per esempio, ha rilanciato il problema della democrazia attraverso il concetto di ospitalità. Insomma, il pensiero di Derrida si presenta come un caso singolare di pensiero. che non è un pen siero della politica. La sua battaglia, dunque, si muove piuttosto nell’elemento della filosofia politica oppure della “politica della filosofia”, che non si interessa delle pratiche concrete di governo?

Marc Crépon – È vero che nell’opera di Derrida non si trova una riflessione sviluppata intorno alle forme di governo. Eppure, la possibilità di qualificare il suo pensiero come “politico” è innegabile, a dispetto di tutte le riserve che impone l’idea stessa di “qualificazione” in generale. Ed è innegabile almeno per due ragioni. La prima è che, se è vero che, a partire dai tre grandi libri del 1967 (1), uno dei fili conduttori del suo pensiero è stata la decostruzione del soggetto sovrano, era allora inevitabile che Derrida incrociasse la questione della sovranità in sé, nella sua accezione politica.

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14 Marzo, 2013

Marx e la giustizia

by gabriella

Marx nel 1875Il dibattito sul Rasoio di Occam. Secondo Petrucciani, prima di Marx la critica sociale si reggeva principalmente su un impianto moralistico. Ecco perché Marx ha segnato un progresso enorme nel pensiero cui fanno riferimento le classi subalterne. Ma questo progresso nasconde anche un lato meno positivo: esso occulta il problema della giustificazione, dell’ancoraggio razionale o valoriale della critica e del conflitto. Panissidi spiega come e perché Marx non ne abbia mai avuto bisogno e anzi opponga esplicitamente la prospettiva materialistica a quella etica.

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11 Marzo, 2013

Giorgio Bongiovanni, Giovanni Sartor, Ronald Dworkin: i diritti presi sul serio. L’uguaglianza e i fondamenti della moralità politica

by gabriella

220px-Ronald_Dworkin_at_the_Brooklyn_Book_FestivalE’ uscita oggi sul Rasoio di Occam una ricognizione complessiva del pensiero di Ronald Dworkin, filosofo del diritto tra i più eminenti, scomparso lo scorso 14 febbraio.

La riflessione dworkiniana*, secondo molti teorici del diritto, ha rappresentato un vero e proprio cambio di paradigma rispetto alle posizioni classiche della teoria giuridica quali il giuspositivismo, il giusnaturalismo e il realismo giuridico. Nel dibattito italiano e dei paesi di lingua neolatina, Dworkin viene considerato come uno dei principali ispiratori della corrente del “neocostituzionalismo”. Le analisi dworkiniane non si sono limitate al diritto, ma si sono estese a fondamentali temi della politica e dell’etica: si può dire che le sue indagini abbiano preso in esame i principali aspetti della ragion pratica.

L’opera di Dworkin a nostro parere può essere vista come lo sviluppo di un’unica tesi fondamentale, quella della connessione tra diritto e moralità politica1. Questa tesi fornisce una chiave di lettura coerente delle sue riflessioni teorico-giuridiche, filosofico-politiche e filosofico-morali.

In relazione alla teoria del diritto, la tesi della connessione comporta la critica del modello positivistico del diritto, cioè la negazione della riducibilità del diritto alle fonti formalmente valide, quali le statuizioni autoritative del legislatore, dell’amministrazione e dei giudici. Al contrario, per Dworkin il diritto include necessariamente valutazioni morali, la cui validità si fonda non solo sulla loro accettazione da parte dei giudici e dei cittadini, ma anche sulla loro intrinseca correttezza, quali aspetti della moralità politica della comunità. Si tratta in particolare dei principi inclusi nel sistema costituzionale, che esprimono primariamente una serie di diritti degli individui.

Questa prospettiva comporta un’implicazione politica importante al livello della struttura del sistema giuridico, cioè il vincolo del legislatore di fronte ai principi e ai diritti che fondano la comunità. Nella visione di Dworkin l’interpretazione e l’attuazione di quei principi è affidata ai giudici, cui pertanto egli riconosce un ampio ruolo, anche in contrapposizione al legislatore. Ad essi spetta garantire il principio “liberal”, della eguale considerazione e rispetto degli individui (e innanzitutto la tutela dei loro diritti), che rappresenta il necessario presupposto della legittimità dei sistemi giuridici.

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29 Gennaio, 2013

Stefano Rodotà, Lessico democratico: le parole escluse dalle agende

by gabriella

Rodotà

La battaglia per le “chiare parole” vede oggi Stefano Rodotà illustrare i concetti di equità (vs eguaglianza), reddito di sussistenza (vs reddito di cittadinanza), dignità, libertà, democrazia, cittadinanza

Bisogna essere capaci di guardare oltre le nebbie delle varie “agende” politiche in circolazione; oltre il continuo degradarsi dei partiti in raggruppamenti personali; oltre quello che giustamente Massimo Giannini ha chiamato il “dissennato referendum sull’Imu”; oltre i vorticosi tour televisivi dei candidati. Bisogna farlo, perché all’indomani delle elezioni ci troveremo di fronte a una folla di problemi oggi ignorati, e che sarà vano pensar di cancellare tirando fuori di tasca un fazzoletto da strofinare su qualche poltrona. E soprattutto perché siamo immersi in mutamenti strutturali che esigono quella forte cultura politica e istituzionale finora mancata.

Le parole, per cominciare. Negli ultimi mesi sono stati in gran voga i riferimenti all’“equità”, presentata come la via regia per riequilibrare le durezze imposte da una attenzione rivolta unicamente all’economia, anzi a un mercato “naturalizzato”, portatore di regole presentate come inviolabili. Ma equità è termine ambiguo, che occulta o vuol rendere impronunciabili proprio le parole che indicano quali siano i principi oggi davvero ineludibili – eguaglianza e dignità. I nostri, infatti, sono i tempi delle diseguaglianze drammatiche e crescenti, che tra l’altro, come è stato più volte sottolineato, sono pure fonte di inefficienza economica. E la dignità ci parla di una persona che esige integrale rispetto, che non può essere abbandonata al turbinio delle merci.

Confrontata con queste altre parole, l’equità finisce con l’apparire meno esigente, accomodante, richiama quel “versare una goccia d’olio sociale” che nell’Ottocento veniva indicato come lo stratagemma per rendere accettabili scelte unilaterali e impopolari. In un contesto così costruito, l’eguaglianza deve farsi “ragionevole”, diviene negoziabile, e la dignità può essere sospesa, evocata solo in casi estremi. Queste non sono speculazioni astratte. Se si dà un’occhiata alla più blasonata tra le agende, quella che porta il nome del presidente del Consiglio, ci si imbatte nel riferimento a “un reddito di sostentamento minimo”, formula anch’essa portatrice di grande ambiguità. Essa, infatti, può riferirsi ad una sorta di reddito di “sopravvivenza”, a un grado zero dell’esistere che considera la persona solo nella dimensione del biologico, tant’è che viene agganciata all’esperienza non proprio felice della social card, dunque alla condizione di povertà. Nessuno, di certo, può trascurare l’importanza di misure contro la povertà in tempi in cui questa aggredisce fasce sempre più larghe della popolazione. Ma, considerata in sé, questa è una strategia che non corrisponde alle indicazioni costituzionali e che elude il tema dell’integrale rispetto della persona in un mondo segnato da mutamenti strutturali profondi.

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6 Dicembre, 2012

Luigi Ferrajoli, Ma l’economia è democratica?

by gabriella

FerrajoliIn questa bella riflessione su economia e democrazia, Ferrajoli esamina da costituzionalista cause e rimedi del collasso dello stato di diritto e dell’economia sociale di mercato. Ne emerge la drammatica contraddizione che evidenzia, da un lato, la crisi della democrazia costituzionale e l’impotenza della politica a renderla esecutiva e, dall’altro, la sua impossibile (alla luce delle ragioni acutamente delineate dal giurista) soluzione consistente nella risposta politica e nella ricostituzionalizzazione del diritto.

Alla luce di questa impasse, ciò che resta in ombra nell’analisi di Ferrajoli (peraltro uno dei miei costituzionalisti preferiti) sembra dunque la crisi dello stesso costituzionalismo, cioè l’incapacità degli strumenti di analisi del diritto di uscire dall’orizzonte del “dover essere” e di misurarsi con la “realtà effettuale” – come direbbe Machiavelli – della società liberale matura. Una realtà, cioè che, dal punto di vista scientifico (cioè conoscitivo), può essere pensata solo in prospettiva pluridisciplinare e che, da quello politico, può indicare risposte solo quando si misura con la razionalità di tutti gli attori, prima tra tutte quella dei mercati.

Emergono così diverse questioni: se l’economia non è democratica, possono, i mercati, comportarsi come dovrebbero? Può il diritto addomesticare gli animal spirits? E può tanto (come il giurista dice necessario) la politica dei partiti sistemici ai quali Ferrajoli si rivolge nelle conclusioni, dimenticando di aver denunciato, giusto due righe sopra, la loro debolezza, la loro lontananza dalla società, la loro corruzione? Uscire dalla crisi è impossibile se non si pensa la crisi di un paradigma.

 

 

1. La crisi, i mercati e il rapporto tra economia e politica

Io credo che il tema di questo intervento – il rapporto tra economia e politica e la dipendenza della seconda dalla prima – sia il tema di fondo del nostro tempo: un tema che è tutt’uno con il tema della crisi della sfera pubblica, del ruolo e ancor prima della natura della politica e perciò, in ultima analisi con il tema, al tempo stesso teorico e politico, della crisi della democrazia, non solo in Italia ma in Europa e più in generale a livello globale.

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30 Novembre, 2012

Quando gli studenti prendono la parola

by gabriella

Adele

«Prima volta che succede», balbetta  il Rettore dell’Università di Parma (alla fine del video) “e forse è anche un bene. L’Università è fatta così” – dopo l’intervento pronunciato con ammirevole fermezza da una studentessa dell’Ateneo al termine dell’inaugurazione dell’anno accademico. In realtà, Rettore, é la democrazia che è fatta così ed è un bene senz’altro, soprattutto a scuola e quando serve a dire la verità.

Di seguito la ricostruzione dell’intervento dell’Associazione Libre.

«Caro ministro Clini, caro magnifico rettore: oggi state celebrando un funerale, non l’inaugurazione della nostra università». Scena surreale, a Parma, alla cerimonia di apertura dell’anno accademico: a scuotere l’aula è una ragazza, Adele Marri, portavoce del collettivo studentesco “Anomalia Parma”. Una requisitoria memorabile. La ragazza parla per cinque, interminabili minuti: parole durissime, scolpite nell’aria. Una denuncia drammatica, che ha la fermezza composta e terribile di un testamento. E’ la vigilia di una morte annunciata: fine della scuola, della libertà, della democrazia. Fine dello Stato di diritto. E fine del futuro, per decreto dell’infame Europa del rigore. Lo scenario: crimini contro l’umanità di domani, quella dei giovani. Sentenza senza appello. E senza neppure la dignità di un commento: ammantati di ermellini, gli emeriti membri del senato accademico restano ammutoliti, dietro al clamoroso imbarazzo del “magnifico rettore”.

«Prima, il rettore ha detto che l’università è un luogo libero», esordisce Adele, che protesta: lezioni sospese per permettere a tutti di partecipare alla cerimonia inaugurale, «e invece quello che abbiamo trovato è stata un’università blindata da cordoni di polizia e carabinieri con scudi e manganelli».

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29 Settembre, 2012

Rodolfo Ricci, Populismo

by gabriella

Uno spettro si aggira per l’Europa: il Populismo.

Cosa sia di preciso nessuno lo ha capito, ma il termine prolifera: in bocca a sprovveduti di varia provenienza, riempie ormai i comizi d’amore e d’odio, le pagine di tanta stampa, in Europa e in Italia soprattutto, dopo il varo della campagna d’autunno del partito di Repubblica, rinvigorito da quella altrettanto possente de L’Unità.

Fino a qualche decennio fa, lo spettro si aggirava per altri lidi. In particolare in America Latina dove alcuni sostengono che sia nato all’epoca di Jan Domingo Peron. Oppure per il vasto panorama del terzo mondo asiatico e africano, i cui leader nazionalisti (in particolare i nazionalizzatori delle risorse locali) erano spesso aggettivati come tali: populisti.

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