Archive for ‘Filosofia’

21 Luglio, 2012

La fondazione del diritto di proprietà. Storia di un’idea dai padri della Chiesa a Locke

by gabriella

Locke1Tra ‘500 e ‘600, la difesa della proprietà privata assume un’importanza fondamentale per giungere ad una giustificazione del moderno processo di accumulazione delle ricchezze. Non era più sufficiente, infatti, riesumare le vecchie argomentazioni aristotelico-tomistiche: lo sviluppo concreto della proprietà superava ormai i limiti posti da questa concezione ed entrava in conflitto diretto con il diritto d’uso tradizionale. Si trattava di conferire alla stessa proprietà privata lo status di diritto naturale in modo da garantirne il carattere esclusivo e l’estensione illimitata. Un’esigenza a cui dà risposta John Locke.

Il pensiero politico di Locke si colloca infatti nell’ambito delle profonde trasformazioni economico-sociali proprie dell’affermazione dell’economia industriale e manifatturiera dell’Inghilterra seicentesca, nella quale lo sviluppo crescente delle forme di produzione protocapitalistiche necessitava di una precisa fondazione ideologica. La dissoluzione del mondo feudale e dei rapporti di produzione legati alle forme assunte dall’economia d’uso a vantaggio di un’economia di scambio esigeva, in effetti, da un lato il ripensamento dei fondamenti del diritto di proprietà e dall’altro la sua collocazione in un sistema politico-istituzionale che ne garantisse lo sviluppo e la conservazione.

 

Lo sviluppo del concetto di proprietà da san Tommaso al pensiero borghese

«Loro [Cicerone e i moralisti pagani] fanno consistere la giustizia nell’usare ciascuno, come beni comuni, quei beni che sono comuni, e come beni propri i beni privati. Ma nemmeno questo è secondo natura. La natura infatti profuse a tutti i suoi doni. Perché Dio comandò che tutto si producesse a comune beneficio di tutti e che la terra fosse in certo qual modo comune possesso di tutti. La natura ha dunque generato il diritto comune, l’usurpazione ha generato il diritto privato [Natura igitur ius commune generavit, usurpatio ius fecit privatum].

Sant’Ambrogio, De officiis, 1, 28

«L’erba che il mio cavallo ha mangiato, la zolla che il mio servo ha scavato, il minerale che io ho estratto in un luogo […] diventano mia proprietà […] E’ il lavoro che è stato mio, cioè a dire il rimuovere quelle cose dallo stato comune in cui si trovavano, quello che ha determinato la mia proprietà su di esse»

John Locke, Second Treatise, § 28

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12 Luglio, 2012

Franco Toscani, Freud, Marcuse e il Disagio della civiltà

by gabriella

Felicità e infelicità nella civiltà

FreudAll’inizio di Das Unbehagen in der Kultur, Freud riprende le tematiche proprie di un saggio come Die Zukunft einer Illusion, distingue tra le fonti più profonde e quelle più comuni e volgari del sentimento religioso, sottolinea l’infantilismo della forma dominante della religiosità occidentale, col suo affidamento totale alla figura di un Dio Padre onnipotente/provvidente e spiega la fortuna della religione in base al fatto che la vita è troppo dura da sopportare per gli uomini senza le “costruzioni ausiliarie” fornite appunto dalla religione, di cui ha parlato Theodor Fontane (5).
Le religioni dell’umanità, tese a procurarsi a tutti i costi una garanzia di felicità tramite una “trasformazione delirante della realtà”, vanno considerate per Freud “alla stregua di un delirio collettivo”, mai riconosciuto come tale dai “credenti” (UK 217).Vi è pure un contenuto di verità nella religione, ma represso e trasfigurato; per quanto riguarda il cristianesimo; ne L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1934-1938) Freud rileva che i cristiani sono

“cristianizzati male”, in quanto essi – commenta Marcuse – “accettano e osservano il Vangelo liberatore soltanto in una forma altamente sublimata – che lascia la realtà in uno stato di mancanza di libertà, com’era prima” (6).

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9 Luglio, 2012

George Bataille, À perte de vue

by gabriella

Questo cupo documentario che in italiano suonerebbe «a perdita d’occhio», è stato dedicato da André Labarthe a George Bataille nel 1997.

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9 Luglio, 2012

Laozí, Dao Dé Ching

by gabriella

Il Dao è flessibile come un arco; l’alto diventa più basso, ed il modesto si eleva.
Esso riduce la distanza che è stata stesa, ed allunga ciò che è divenuto troppo corto.
È la Via del Dao di prendere da quelli che hanno troppo e di darlo a chi ha bisogno,
La via della persona comune, non è la Via del Dao, perchè simili persone
sono abituate a prendere da quelli che sono poveri e dare a quelli che sono ricchi.
Il saggio sa che i suoi averi non sono di nessuno, perciò lui li dà al mondo;
senza riconoscenza e senza rimpianti, solamente facendo il suo lavoro.
Cosi egli compie ciò che a lui viene richiesto; e senza starci a pensar su,
lui fa dono della sua saggezza, senza mostrarlo in alcun modo.

Taglia via la saggezza, getta via il sapere: il profitto del popolo sarà centuplicato.
Taglia via l’umanità, getta via la giustizia: il popolo tornerà alla pietà filiale.
Taglia via l’abilità, getta via il profitto: non ci saranno più ladri né banditi.
Per queste tre cose la cultura non è sufficiente.
Abbi quindi qualcosa su cui fare affidamento.
Mostrati naturale, abbraccia la semplicità.
Abbi pochi interessi personali e pochi desideri.
Con lo studio ogni giorno si aumenta.
Con la via ogni giorno si diminuisce.
Si diminuisce sempre più finché si arriva al non-fare.

8 Luglio, 2012

Cornelius Castoriadis, Daniel Mothé, Autogestion et hiérarchie (Autogestione e gerarchia)

by gabriella

In questo articolo del 1974, Castoriadis e Mothé confutano l’idea che la gerarchizzazione delle relazioni sociali sia naturale o utile e le oppongono l’orizzontalità e l’autentica democraticità di una società autogestita, nella quale i decisori sono tutti gli individui interessati dalle conseguenze e i rappresentanti sono intercambiabili e revocabili con procedure semplici e veloci. In coda al testo il link ad un’intervista in cui Castoriadis descrive i meccanismi della democrazia ateniese.

Nous vivons dans une société dont l’organisation est hiérarchique, que ce soit dans le travail, la production, l’entreprise; ou dans l’administration, la politique, l’Etat ; ou encore dans non hiérarchiques qui ont très bien fonctionné. Mais dans la société moderne le système hiérarchique (ou, ce qui revient à peu près au même, bureaucratique) est devenu pratiquement universel. Dès qu’il y a une activité collective quelconque, elle est organisée d’après le principe hiérarchique, et la hiérarchie du commandement et du pouvoir coïncide de plus en plus avec la hiérarchie des salaires et des revenus. De sorte que les gens n’arrivent presque plus à s’imaginer qu’il pourrait en être autrement, et qu’ils pourraient eux-mêmes être quelque chose de défini autrement que par leur place dans la pyramide hiérarchique. l’éducation et la recherche scientifique. La hiérarchie n’est pas une invention de la société moderne. Ses origines remontent loin -bien qu’elle n’ait pas toujours existé, et qu’il y ait eu des sociétés.

Viviamo in una società la cui l’organizzazione è gerarchica, si tratti di lavoro, produzione, o impresa, amministrazione, politica, o Stato oppure ancora dell’educazione e della ricerca scientifica. La gerarchia non è un’invenzione della società moderna. Le sue origini sono remote, benché non sia sempre esistita, e vi fossero delle società non gerarchiche che hanno funzionato molto bene. Ma nella società moderna il sistema gerarchico (o, il che è lo stesso, burocratico) è diventato praticamente universale. Non appena si verifica una qualunque attività collettiva, essa è organizzata sul principio gerarchico, e la gerarchia del comando e del potere coincide sempre più con la gerarchia dei salari e dei redditi. Di modo che le persone non arrivano quasi più ad immaginarsi che potrebbe essere diversamente, e che potrebbero essere esse stesse qualcosa di diversamente definito che dal loro posto nella piramide gerarchica.

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6 Luglio, 2012

Tonino Bucci, La crisi dell’intellettuale contemporaneo e il mondo invertito

by gabriella

Vale la pena di soffermarsi su questo articolo di Bucci che, dopo aver esaminato la crisi dell’intellettuale contemporaneo, studia  lo strano potere del falso, dell’inautentico e dell’errore con i quali la filosofia si misura fin da Platone. Perché l’apparenza, tanto più oggi, prevale sulla verità? Perché la menzogna e la credenza persuadono più dell‘epistéme?

Pensa di vedere degli uomini che vi siano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo,
sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo.
Platone, La repubblica
Il disagio della cultura è uno dei tratti paradossali della società contemporanea. Il degrado delle istituzioni culturali e le politiche di tagli di bilancio a scuola, università, ricerca, musei, archivi, teatri, cinema ed editoria, è solo un lato del problema. Prima ancora di essere erosa dalle logiche di contabilità dei governi, la cultura è oggi messa a rischio dal venir meno della legittimazione di cui godeva in passato e dal discredito del suo ruolo nella comunità. Tramontata la stagione dell’engagement, da un lato, e dell’universalismo dei valori, dall’altro, il segno più evidente della decadenza culturale è proprio la trasformazione del ruolo degli intellettuali – ammesso che in un tempo di profonda rivoluzione delle professioni cognitive si possa ancora parlare degli intellettuali come di un ceto sociale.
Secondo un’efficace formula di Zygmunt Bauman, l’intellettuale contemporaneo sarebbe passato dalla funzione di legislatore a quella di interprete. Quella figura di intellettuale che in passato, a torto o a ragione, poteva accreditarsi agli occhi della società come portavoce di istanze universali, capace di indicare ideali e modelli per l’avvenire, ha oggi abbandonato il campo a vantaggio di una nuova schiera di professionisti della comunicazione.

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22 Giugno, 2012

Marcel Hénaff, Il prezzo della verità

by gabriella

La recensione di Beniamino Fortis a Marcel Hénaff, Il prezzo della verità. Il dono il denaro, la filosofia, Città Aperta, 2007.

Quel che conta non ha prezzo [per tutto il resto c’è Master Card …]

Se vi sia ancora spazio, nell’epoca del pieno dispiegamento della logica commerciale, per un ambito sottratto alle valutazioni mercantili è questione che assume un ruolo preponderante nell’ambito delle tematiche trattate da Marcel Hénaff. Da essa prende le mosse il percorso che le attraversa, e ad essa è riconducibile la sostanziale continuità tra i tre nuclei problematici che, dell’intera opera, scandiscono e orientano lo sviluppo. Figure della venalità, L’universo del dono, La giustizia nello scambio e lo spazio mercantile, sono infatti le tre tappe, i tre quadri concettuali, susseguentisi nella stretta relazione che nell’ultima parola dell’uno, riconosce contemporaneamente il primo atto del successivo. Nel risultato ultimo, conseguito nell’ambito di un piano tematico, il presupposto, a partire dal quale è consentito lo sviluppo della trattazione seguente.

Oggetto della prima parte dell’opera è la delineazione del concetto di venalità. Una ricostruzione della critica rivolta da Platone e Aristotele contro i sofisti individua il tratto saliente della polemica nell’indignazione provata dinanzi alla circostanza, per la quale era consuetudine dei maestri di sofistica esigere un onorario in cambio dei servigi offerti. Nella fattispecie, appare scandalosa l’indebita istituzione di un rapporto fra ciò che, per sua stessa natura, risulta essenzialmente incomponibile: «La scienza e il denaro non si misurano con lo stesso metro» (Aristotele, Etica Eudemia, VII, 10, 1243b).

Sulla base di tale irriducibile incommensurabilità, le conclusioni che si traggono conducono al più profondo discredito per i sofisti – che quindi, non possono in alcun modo essere quei maestri di autentico sapere per i quali si spacciano, poiché, se veramente così fosse, nessun compenso potrebbe, in tal caso, risultare adeguato. È il fatto che gli insegnamenti sofistici siano – in certo qual modo – misurabili – che a essi, cioè, sia possibile dare un prezzo – a evidenziarne la radicale estraneità rispetto all’autentica saggezza della filosofia.

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22 Giugno, 2012

Mario Perniola, Il senso, la fine, l’infimo inizio

by gabriella

L’infimo è l’impercettibile inizio del movimento, il primo segno visibile di ciò che è fausto. L’uomo di valore non appena vede l’infimo passa all’azione, senza attendere la fine della giornata.

Confucio

Un rapporto complesso e problematico lega l’idea della fine a quella del senso. Forse nessuno meglio di Kant ha colto nello scritto La fine di tutte le cose (1794) tale rapporto. In particolare, colpisce l’idea che non si possa cogliere il senso di checchessia se non pensando alla sua fine: il momento diacronico e storico risulterebbe inseparabile da quello estetico e teleologico. In un’altra opera Kant scrive:

Infine deve pur cadere il sipario. Perché alla lunga diverrebbe una farsa; e se gli attori non se ne stancano perché sono pazzi se ne stanca lo spettatore, che a un atto o all’altro finisce per averne abbastanza se ha ragione di presumere che l’opera, non giungendo  mai alla fine, sia eternamente la stessa.

Questa connessione tra il senso e la fine circola ampiamente nella filosofia tra Ottocento e Novecento. Secondo Hegel, la filosofia è come la nottola, che spiega il suo volo al tramonto: esiste un’astuzia della ragione, che dissimula il vero significato degli eventi sotto motivazioni che nulla hanno che fare con questi. Per Dilthey, la vita non è qualcosa il cui significato possa essere colto immediatamente: l’essenziale, a suo avviso, non è la vita naturale ed empirica, ma l’Erlebnis, l’esperienza vissuta o meglio rivissuta. La forma più alta dell’intendere è il rivivere: solo attraverso di esso noi possiamo sottrarre il presente alla scomparsa e trasformarlo in una presenza sempre disponibile. Il compito svolto dal poeta e dallo storico è perciò di estrema importanza: solo essi infatti possono carpire alla caducità, all’oblio e alla morte il mondo umano conferendogli per sempre un senso.

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21 Giugno, 2012

Gianluca Bonaiuti, Crisi e catastrofe

by gabriella
L’ultima chance per un futuro

Non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, ‘moderna’ e non abbia creduto di essere immediatamente davanti ad un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità.

Così Benjamin, in un frangente decisivo della storia del XX secolo.

A distanza di quasi un secolo dalla stesura di questa annotazione, verrebbe quasi da dire che non se ne può più di sentir parlare di crisi. Non solo nel senso che non se ne può più delle conseguenze che ad essa si addebitano in termini di effetti politici e sociali, ma perfino del fatto che in fondo, a ben vedere, sembra quasi che quello di «crisi» sia più un concetto di copertura, o di rimozione, che non un concetto di svelamento, grazie al quale, cioè, sia possibile rendere visibile qualcosa che prima non si vedeva.

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5 Giugno, 2012

Gregory Bateson, Perché le cose finiscono in disordine?

by gabriella

Bateson scrisse questo geniale dialogo sul disordine, oggi contenuto in Verso un’ecologia della mente [Milano Adelphi, 1998, pp. 35-40] nel 1948.


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