Dislessia: non irmptoa cmoe snoo sctrite le plaroe ..
Toni Negri sulla dislessia dei manager
In questo articolo, Negri illustra le ragioni per le quali la dislessia diventa nei manager l’arma vincente per misurarsi con l’ingestibile velocità del capitalismo contemporaneo.
Il potere alienato dalla folla
Sono stati scritti in un decennio, questi saggi di Christian Marazzi raccolti nel volume Il comunismo del capitale (Ombre corte, pp. 160, euro 23). Hanno il buon sapore che si sentiva nel bel volume che ha reso questo economista di origine svizzere abbastanza noto in Europa e negli Usa: Il posto dei calzini (pubblicato dalla casa editrice Casagrande nella Svizzera italiana e ripreso poi da Bollati Boringhieri). Lì, per la prima volta, il postindustriale era coniugato con la sovversione femminista ed il postmoderno trovava non una voce debole o molle per dichiararsi (come ci avevano abituato i suoi fondatori) ma mostrava i muscoli della rivoluzione sociale.
Leggo qui con voi le prime due parti di questo libro: la prima, «Biocapitalismo e finanziarizzazione» e la seconda, «Il lavoro nel linguaggio». Parto da una questione posta da Marazzi che sembra, a prima vista, bizzarra e mi chiedo con lui: perché i manager sono spesso dislessici? Perché – risponde Christian – se la difficoltà di focalizzare e decodificare i fonemi sviluppa nei dislessici, in generale, la capacità di vedere o percepire molto rapidamente il quadro d’assieme, il contesto nel quale si trovano ad operare i manager trasforma la condizione dislettica nella facoltà di alterare e creare percezioni, organizza un’estrema consapevolezza dell’ambiente nel quale sono immersi. Pensiero ed intuito si applicano insieme su scene multi-dimensionali e qui esprimono potenza e creatività.
Luigia Milani, Il disturbo aspecifico d’apprendimento, Gabriella Maggi, I disturbi dell’apprendimento
Unità Operativa Complessa di Neuropsichiatria Infantile
Dipartimento di Neuroscienze
Ospedale Pediatrico Bambino Gesù – ROMA
Il disturbo aspecifico dell’apprendimento è correlato a capacità cognitive al di sotto della media e/o a diverse patologie. Vediamo come si manifesta e come è possibile affrontarlo.
Cos’è il Disturbo Aspecifico di Apprendimento?
Il Disturbo Aspecifico (o non Specifico) di Apprendimento riguarda difficoltà di apprendimento in relazione a capacità cognitive al di sotto della media e/o a patologie di vario tipo: sensoriali, come per esempio la sordità o forti difficoltà visive, neurologiche, come per esempio l’epilessia, genetiche, come alcune sindromi genetiche, organiche in genere, come per esempio l’ipotiroidismo, psicologiche (disturbi psicopatologici primari).
In queste situazioni le difficoltà sono spesso generalizzate, quindi non solo nelle competenze “di base”, cioè nella lettura, scrittura, matematica, ma anche nei processi logici.
Siamo, infatti, a volte, in presenza di capacità cognitive non adeguate alla media, anche se non in ritardo: collocabili cioè, nella cosiddetta “fascia inferiore” della media o “ai limiti” del ritardo cognitivo.
Anche nel ritardo cognitivo sono presenti difficoltà di apprendimento: esse sono però più conseguenti al ritardo stesso, anche se in questo campo, vi è comunque una grande variabiltà tra una situazione e l’altra, con differenti profili neuropsicologici.
Benasayag, Schmit, Il desiderio è il fondamento stesso dell’apprendimento
Stralcio dal libro di Miguel Benasayag (Les passions tristes. Souffrance psychique et crise sociale, Paris, 2003) questo passaggio significativo sull’educazione e la trasmissione di cultura:
“E allora come è possibile ormai educare, trasmettere e integrare i giovani in una cultura che non solo ha perduto il proprio fondamento principale ma l’ha visto trasformarsi nel suo contrario, nel momento in cui il futuro-promessa è diventato futuro-minaccia? Alla fine, la cosa più strana è che questo cambiamento passi pressoché inosservato. Le diverse istituzioni deputate a educare, a trasmettere e a curare ciò che va male agiscono come se non ci fosse nessuna crisi, come se ci fossero solo delle difficoltà da superare, con l’aiuto della tecnica e un po’ di buona volontà. Tra gli “ideali patchwork” che si sostituiscono alle speranze della modernità e che si sforzano di nascondere la crisi, ce n’è uno che ci interessa in modo particolare. Si tratta del passaggio dal desiderio alla minaccia.
Oggi, per i giovani, la minaccia del futuro si è sostituita all’invito a entrare nella società, a condividere, a conoscere e ad appropriarsi dei beni della cultura. Sembra che la nostra società non possa più “concedersi il lusso” di sperare o di proporre ai giovani la loro integrazione sociale come frutto e fonte di un desiderio profondo. Si dimentica quale sia secondo Freud – come per i suoi successori, ma soprattutto per la stragrande maggioranza degli insegnanti e degli educatori – la motivazione dell’apprendimento: il desiderio di imparare e di comprendere.
Freud spiega la possibilità di cominciare a imparare, a educarsi e, in sintesi, ad accedere alla cultura, mediante il concetto di sublimazione della libido. Secondo Freud, crescendo il bambino accetta di sublimare – o potremmo dire di negoziare – una parte della sua libido, owero della sua energia vitale, del suo desiderio, passando così da una posizione autocentrata, la cosiddetta libido narcisistica, a una preoccupazione e attenzione rivolte al mondo esterno che Freud definisce libido oggettuale. Una parte di tale processo consente ai bambini di assumere la propria umanizzazione come un divenire. Questo passaggio è descritto da Freud con il concetto di pulsione epistemofilica: l‘espressione indica la capacità del bambino di aver desiderio di imparare, consacrando una parte della sua libido agli oggetti del mondo che deve apprendere, comprendere e abitare.
Il desiderio è quindi, semplicemente il fondamento stesso dell’apprendimento. Sicuramente l’apprendimento scolastico è anche “utile” al bambino, perché se ne può servire nella vita quotidiana. Ma è il frutto del desiderio e della pulsione epistemofilica, e non di un semplice utilitarismo. Non si tratta semplicemente di essere informati, perché l’educazione non si riduce all’assimilazione di una “modalità d’impiego della vita”...
Malinconia: genio e follia in Occidente (8)
VIII. L’angelo della Storia. Malinconia e tempi moderni
Da quando la cultura si è separata dal culto e s’è fatta culto essa stessa, essa non è più di un rifiuto e, dopo appena 500 anni, il mondo è così stanco e sazio di lei che sembra quasi l’abbiano imboccato con un cucchiaio.
Thomas Mann, Faust, 1947
Lo scacco delle grandi utopie sociali e delle ideologie politiche, l’avanzata dei totalitarismi, la guerra, precipitano l’uomo del XX° secolo in un irrimediabile sentimento d’estranietà verso il mondo. In Munch, De Chirico, Hopper, la malinconia prende così corpo in un quadro quotidiano e procede attraverso uno scarto radicale tra il soggetto e il suo ambiente. In Sironi, Dix, Kiefer, essa testimonia delle rivoluzioni politiche come di quelle tecniche: all’attaccamento al passato che caratterizza l’opera del primo, corrisponde la violenza provocata dall’avvento del regime nazista in Otto Dix, mentre Kiefer si esprime ironicamente nella rappresentazione di un bombardiere tedesco in piombo (questo metallo è associato alla malinconia), indatto dunque a qualunque volo e, in più, coronato dal poliedro dell’incisione di Durer. La malinconia del XX° secolo appare così legata fondamentalmente alla storia.
Malinconia: genio e follia in Occidente (7)
VII. La naturalizzazione della malinconia
La depressione è una malattia cerebrale caratterizzata da delirio parziale cronico, senza febbre, intessuto a una passione triste, debilitante o oppressiva. […] la sensibilità concentrata su un solo oggetto, sembra aver abbandonato tutti gli organi: il corpo è insensibile a ogni impressione, così che lo spirito non si esercita più che su un soggetto unico che assorbe tutta l’attenzione e sospende l’esercizio di tutte le facoltà intellettuali. L’immobilità del corpo, la fissità dei tratti e della faccia, il silenzio ostinato, tradiscono il contenimento doloroso dell’intelligenza e delle emozioni. Non è più un dolore che teme, che grida, che piange, è un dolore che tace, che non ha lacrime, impassibile.
Jean-Etienne-Dominique Esquirol, Les passions considérées comme causes, symptomes et moyens curatifs de l’aliénation mentale, 1805
Se la teoria umorale è stata rimessa in causa per la prima volta nel XVII° secolo, con la scoperta della circolazione sanguigna, essa continua nondimeno a governare la percezione della malattia malinconica. Bisogna attendere gli inizi del XIX° secolo e i lavori di Esquirol perchè la malinconia non sia più inclusa nella malattia umorale.
Esquirol e Pinel ne fanno un problema dell’intelligenza, caratterizzato da delirio parziale. Ma, dalla fine del secolo, questa definizione è rigettata: “Non si sarebbe folli a metà o per tre quarti”, scrive Ballarger nel 1890. Da allora, due aspetti della malinconia patologica possono essere messi in relazione: l’abbattimento e il furore, che la medicina fino a quel momento teneva distinti con i termini di “malinconia” o ” mania”, mentre progressivamente si impone l’idea della sofferenza dei malati malinconici dei quali si pensava, fino alla metà del XIX° secolo che non provassero niente. Infine, nel 1915, in un articolo intitolato Lutto e malinconia, Freud mette in evidenza il legame tra la malinconia e il pensiero della morte.
Lypemania o malinconia?
Dal primo decennio del XIX° secolo, la malinconia entra nel campo della nascente scienza psichiatrica e diventa un oggetto di studio privilegiato per i medici. Per isolarla o distinguerla dalle altre forme che ha potuto assumere la malinconia nel corso dei secoli, il medico Esquirol propne un nuovo nome della malinconia: la depressione. “Il termine malinconia, consacrato nel linguaggio volgare per esprimere lo stato abituale di tristezza di alcuni individui, deve essere lasciato ai moralisti e ai poeti che, nella loro espressione, non sono obbligati alla stessa severità dei medici”– scrive. Il nuovo termine sembra imporsi per un certo tempo, ma è la continuità che l’ha vinta: oggi, la malinconia indica la forma più grave di depressione, chiamata anche “psicosi maniaco-depressiva” o anche “depressione bipolare”.
Malinconia, genio e follia in Occidente 1 e 2; 3; 4; 5; 6; 7; 8
Malinconia: genio e follia in Occidente (6)
VI. Dio è morto. Il Romanticismo
Allora abbiamo visto nascere questa colpevole malinconia che si genera nelle passioni, quando queste passioni , senza oggetto, si consumano da sole in un cuore solitario.
Chateaubriand, Genio del cristianesimo, 1804
La morte di Dio proclamata da Nietzsche, la perdita di fede concomitante, suggellano la solitudine e la desolazione dell’individuo. L’uomo del XIX° secolo si ritrova così davanti al proprio desiderio creatore, ma un desiderio disturbante, violento persino, che non sa più su cosa né perché esercitarsi. Da questo punto di vista, il quadro di Delacroix Michelangelo nel suo atelier è sintomatico della malinconia romantica: l’artista, conosciuto come un noto malinconico, è raffigurato seduto, la testa nella mano, vicino alle delle sculture che egli ha tralasciato, sul senso delel quali sembra interrogarsi.
La malinconia si definisce così in uno come l’espressione del desiderio e della sua impossibilità. Di lì l’attrazione esercitata dall’immaginario sugli artisti romantici e l’interesse che essi spesso manifestano per gli incubi e la follia. La malinconia romantica incontra così il mondo fantasmagorico, popolato di demoni, che ossessionava il monaco in preghiera con l’acedia, e la Natura è vissuta come un nuovo deserto.
Malinconia: genio e follia in Occidente (5)
V. I Lumi e le loro ombre. Il XVIII° secolo.
“Malinconia. E’ il sentimento abituale della nostra imperfezione. […] è il più delle volte l’effetto della debolezza dell’anima e degli organi: essa lo è anche delle idee di una certa perfezione, che non si trova né in noi, né negli altri, né negli oggetti dei suoi piaceri, né nella natura […]”.
Diderot, L’Enciclopédie
Nel XVIII° secolo, si vede fondare sulla ragione un nuovo ordine sociale. Anche la malinconia, percepita come una forma pericolosa di sragione è rigettata. Pubblicata nel 1799 nella raccolta Capricci, l’incisione di Goya Il sonno della ragione genera mostri dà la misura di ciò che sarà l’apprezzamento della malinconia nell’età dei Lumi: questi mostri (cioè, secondo l’etimologia della parola, ciò che si mostra, ciò che si indica col dito) corrispondono precisamente a ciò che ci si sforzerà di nascondere.
La malattia malinconica che ha ormai una nosologia, è anche relegata negli ospizi e nei manicomi il cui scopo consiste se non nel curare, almeno nel ritirare dalla società i malati colpiti da questa singolare affezione.
Quanto alla malinconia sentimentale, la “dolce malinconia”, questa debolezza fisica e intellettuale descritta da Diderot trova rifugio nella natura o nelle rovine la cui solitudine permette al soggetto di fuggire il mondo che lo circonda, un mondo in cui si sente sempre più straniero.
Lo spleen
“Lei non sa cos’è lo splin o i vapori inglesi? Non lo sapevo nemmeno io. Lo domandai al nostro scozzese (padre Hoop) durante la nostra ultima passeggiata ed ecco cosa mi ha risposto: “Da vent’anni sento un malessere generale, più o meno fastidioso. Non ho mai la testa sgombra. Qualche volta essa è così pesante che è come se avessi un peso che mi tira davanti e che mi trascinerebbe da una finestra sulla via, o al fondo di un fiume si fossi sulla riva. Ho idee nere, tristezza, noia. Mi trovo male dappertutto. Non desidero niente. Non saprei volere. […] La vita mi disgusta. Le minime variazioni nell’atmosfera sono per me come scosse violente. Non sono capace di restare in un posto: bisogna che vada senza sapere dove: E’ per questo che ho fatto il giro del mondo. Dormo male. Non ho appetito. Non saprei digerire. Non mi sento bene che dentro una carrozza. Sono tutto il rovescio degli altri. Odio ciò che agli altri piace. Amo ciò che loro dispiace. Ci sono giorni in cui odio la luce. Altre volte mi rassicura, e se entrassi immediatamente nelle tenebre mi sembrerebbe di cadre in una bara. Le mie notti sono agitate da mille sogni strani […]”.
Questa testimonianza dello spleen in una lettera di Diderot a Sophie Volland, datata 28 ottobre 1760, è forse la prima descrizione del male inglese nella letteratura francese. In inglese, il termine spleen indica la milza, l’organo in cui l’antichità collocava la bile nera. Diventerà presto il sinonimo, nella Francia romantica, di una forma poetica di malinconia – e conoscerà una fortuna particolare nelle Fleurs du mal di Baudelaire.
Malinconia, genio e follia in Occidente 1 e 2; 3; 4; 5; 6; 7; 8
Malinconia: genio e follia in Occidente (4)
Anatomia della malinconia
La torre di Babele non ha mai suscitato tanta confusione tra le lingue, quanto il caos della malinconia genera sintomi.
Robert Burton, Anatomia della malinconia, 1621
Alla fine del XVI° secolo, la corrente di valorizzazione della malinconia comincia declinare e, nel 1621, la pubblicazione in Inghilterra de l’Anatomia della malinconia del pastore Robert Burton, segna il ritono a una concezione mediale dell’affezione. Da questo momento le pubblicazioni che denunciano i mali generati dalla divina malattia si succedono. Al termine di questa impresa di deniograzione, dirsi malinconici torna a significare il dichiararsi malati, cioè folli.
L’iconografia della malinconia illustra e segue l’evoluzione del giudizio portato sul’affezione: dal 1593, nella sua Iconologie Cesare Ripa aveva così descritto e rappresentato la Malinconia: “Donna anziana, triste e dolente, mal vestita, senza alcun ornamento, sedutra su una pietra, i gomiti posati sui ginocchi con, vicino a lei, un albero spoglio e delle rocce sparse”. Questo modello si diffonde lungo tutto il XVII° secolo: che si applichi alla figura di Maria Maddalena, a quella di San Girolamo, a quella del re Davide o ancora a quella di figure anonime, la malinconia designa ormai una meditazione il cui oggetto non è più la creazione ma la morte, le opere si apparentano allora con dei memento mori.
Immagine in alto: Domenico Fetti, La malinconia, 1618-1623, olio su tela, 172,5×128,2, Paris, Musée du Louvre.
a sx: Cesare Ripa, Malinconia, 1624-1626, incisione su legno, 22,8×15,4, Paris, Bibliotheque Nationale de France.
a dx: Michael Sweerts (1618-1664), Ritratto di un giovane, olio su tela, 114×92, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
Malinconia: genio e follia in Occidente (3)
III. I figli di Saturno: il Rinascimento
“Si dice che l’umore malinconico sia così imperioso che per la sua impetuosità faccia venire gli spiriti celesti nei corpi umani, per la cui presenza, istinto e ispirazione – dissero gli antichi – gli uomini erano trasportati e dicevano cose ammirevoli; […] essi dissero dunque che se l’anima è mossa dall’umore malinconico, nulla può fermarla e, avendo rotto la briglia e i legami delle membra e del corpo, essa è tutta trasportata dall’immaginazione e diventa così la dimora dei demoni interiori, dai quali apprende, spesso in modo meraviglioso, delle arti manuali”.
Henry-Corneille Agrippa de Nettensheim, La philosophie occulte ou la magie (1486-1535)
Licaone mutato in lupo da Zeus. Nabucodonosor metamorfizzato in bue: i racconti che riferiscono la metamorfosi di un uomo in animale sono presenti sia nei miti antichi che nella Bibbia. Dalla tarda antichità, lo slittamento dell’uomo verso l’animalità, per poco che si produca senza intervento esterno, è considerato un grave squilibrio degli umori e, più specificamente, di un eccesso della bile nera. la malattia è identificata, tra i mali causati dalla malinconia, sotto il nome di “follia lupesca”. La si riconosce dai sintomi: delle lesioni cutanee, un comportamento solitario e notturno. A partire dalla fine del Rinascimento, la follia lupesca è assimilata a una possessione diabolica. La si bracca, si giudica e si brucia sul rogo quelli e quelle che ne sono vittime.
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