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15 Aprile, 2024

La paideia filosofica, Platone

by gabriella
Platone

Platone (427 – 347 a. C.)

In questo articolo cerchiamo di studiare il pensiero educativo platonico, senza affrontare la sua gnoseologia. Questo ci permette di non spezzare il filo della riflessione sull’evoluzione del concetto di areté e di apprezzare i significativi cambiamenti che intervengono nella paideia filosofica.

La lezione fa parte del programma di pedagogia antica, le cui videolezioni sono disponibili qui.

 

Indice

1. L’educazione è insegnare a pensare (videolezione 8)

1.1 La critica alla scrittura e all’insegnamento trasmissivo [Fedro]
1.2 Educare l’anima a riconoscere la verità [Menone e Simposio]

 

2. L’areté è senza padrone (videolezione 9)

2.1 La natura umana nel mito della biga alata [Fedro]
2.2 La libertà nel mito di Er [La Repubblica, X]

 

3. L’educazione nella città giusta (videolezione 10)

3.1 Schiavitù e liberazione: l’allegoria della caverna [La Repubblica, VII]
3.2 Politica ed educazione: libertà ed eguaglianza nella kallipolis

 

Il pensiero educativo di Platone si sviluppa in continuità con quello di Socrate di cui porta a termine la battaglia anti-sofista.

I suoi temi sono, infatti, come quelli del maestro e degli stessi sofisti, la ricerca di cosa sia la virtù (la perfezione dello spirito) o aretè e il problema di come e se sia possibile insegnarla. 

Lo sfondo su cui Platone costruisce le risposte a queste domande non è però uno scenario qualsiasi, ma quello disegnato dal più grande filosofo della tradizione occidentale. Ecco perché, discutendo della virtù, Platone ci mostra via via cosa significa apprendere e cosa insegnare, cosa vuol dire essere intelligenti, essere liberi ed essere giusti.

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11 Marzo, 2024

Platone

by gabriella

Platone e l’Accademia rappresentano per il pensiero filosofico qualcosa di più della fondazione di un atteggiamento di ricerca o di una scuola filosofica. Sono, in realtà, la più profonda ricognizione dei problemi della vita umana, individuale e collettiva, mai tentata nel mondo antico e forse nella storia occidentale.

In otto lezioni [e dodici videolezioni] tentiamo di presentare questa immensa elaborazione culturale e l’itinerario filosofico di un autore segnato in gioventù dalla morte ingiusta del maestro, la cui vita successiva è stata dedicata alla costruzione delle condizioni di una città giusta, i cui cittadini fossero liberi ed uguali [la versione stampabile della lezione è in coda al testo].

L’intera storia della filosofia non è che
note a margine al pensiero di Platone.

Alfred  N. Whitehead

Esercitazioni: Il Protagora; Il Gorgia; Il Teeteto

1. Eutifrone, Apologia, Critone, Fedone [commento al Fedone]
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico 
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade maggiore, Alcibiade minore, Ipparco, Amanti
5. Teagete, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere

Indice

1. Il senso della filosofia platonica

1.1 La formazione e la morte di Socrate
1.2 La vita come parresia e il significato pratico (o politico) della filosofia

 

2. L’opera e l’evoluzione del pensiero platonico

2.1 Le caratteristiche dei dialoghi giovanili
2.2 I dialoghi della maturità e l’allontanamento da Socrate

 

3. Il problema della giustizia: Protagora, Gorgia, Lettera VII

3.1 Il Protagora

3.1.1 È possibile insegnare la virtù politica (arete) come si insegna una conoscenza qualsiasi (techne)?
3.1.2 La risposta di Protagora: Prometeo ed Epimeteo
3.1.3 La virtù è unica o molteplice?

3.2 Il Gorgia

      3.2.1 Dialettica e retorica
      3.2.2 I temi del Gorgia

       3.3 La Lettera VII

 

4. Il problema della conoscenza: TeetetoMenone, Repubblica 

4.1 Il Teeteto

4.1.1 Il filo narrativo
4.1.2 L’ipotesi sofista di Teeteto: la conoscenza viene dalla sensazione
4.1.3 La conoscenza è la capacità di cogliere ciò che «è lo stesso in tutti i casi»
4.1.4 La verità non è una cosa, ma un compito

4.2 Il Menone

4.2.1 Il problema del dualismo conoscitivo
4.2.2 Conoscere non è una cosa, ma un’attività
4.2.3 Conoscere è il tornare dell’anima a se stessa 

4.3 La Repubblica

4.3.1 La metafora della linea

 

5. La conoscenza come educazione dell’anima: Simposio, Fedro, Lettera VII

5.1 Dal Menone al Simposio
5.2 Il Simposio

5.2.1 I sette discorsi del Simposio
5.2.2 Il discorso di Aristofane
5.2.3 Il discorso di Diotima

5.3 Il Fedro e la Lettera VII: l’intrasmissibilità della conoscenza

5.3.1 Fedro: la critica della scrittura
5.3.2 Lettera VII: «come fiamma s’accende da fuoco che balza» 

 

6. L’anima e la natura umana. La psicologia platonica nei dialoghi Fedone, Fedro e Repubblica

6.1 Fedone: l’immortalità dell’anima
6.2 Fedro, il mito della biga alata
6.3 Repubblica, il mito di Er

 

7. Giustizia, uguaglianza e libertà. La politica platonica nella Repubblica

7.1 Conoscenza e città giusta nella Repubblica
7.2 Il comunismo platonico
7.3 Riportare la città all’uguaglianza naturale

7.3.1 L’uguaglianza di genere

 

8. Verso Aristotele, l’irrisolto della teoria delle idee negli ultimi dialoghi

8.1 I problemi del dualismo cose-idee
8.2 Il Parmenide

8.2.1 Cosa sono le idee e qual è il loro rapporto con il mondo sensibile?

8.3  Il rapporto delle idee tra loro negli ultimi dialoghi
8.4 Il parricidio di Parmenide nel Sofista

 

Bibliografia essenziale

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8 Maggio, 2023

Platone, Il mito degli androgini

by gabriella

simposioDurante il simposio, prende la parola anche il commediografo Aristofane e dà la sua opinione sull’amore narrando un mito.

Un tempo – egli dice – gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e giunsero a sentirsi tanto forti da tentare la scalata al cielo. Zeus, allora, incollerito, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà, trovando la quale torna all’antica completezza e appagamento.

Mi sembra che gli uomini non si rendano assolutamente conto della potenza dell’Eros. Se se ne rendessero conto, certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e dei più magnifici, e gli offrirebbero i più splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto come è oggi, quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece niente sarebbe più importante, perché è il dio più amico degli uomini: viene in loro soccorso, porta rimedio ai mali la cui guarigione è forse per gli uomini la più grande felicità. Dunque cercherò di mostrarvi la sua potenza, e voi fate altrettanto con gli altri.

Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c’erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmina. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l’androgino, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo genere. Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole.

Questi androgini erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell’unica testa. Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po’ come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c’erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d’entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra. La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l’essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi.

Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un’idea. –

“Io credo – disse – che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso – disse – io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri.”

Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d’ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un’apertura – quella che adesso chiamiamo ombelico. Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell’ombelico, come ricordo della punizione subìta. Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all’altra. Si abbracciavano, si stringevano l’un l’altra, desiderando null’altro che di formare un solo essere. E così morivano di fame e d’inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l’altra. E quando una delle due metà moriva, e l’altra sopravviveva, quest’ultima ne cercava un’altra e le si stringeva addosso – sia che incontrasse l’altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile. E così la specie si stava estinguendo.

Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l’uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza.

E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d’amore gli uni per gli altri, per riformare l’unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell’uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell’essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un’altra che le è complementare, perché quell’unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole. E’ per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare. Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato androgino si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degli adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall’essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi.

Sin da giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso. Non si tratta infatti per niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi veri uomini e a occuparsi di politica. Da adulti, amano i ragazzi: il matrimonio e la paternità non li interessano affatto – è la loro natura; solo che le consuetudini li costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero bel lieti di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l’uomo cosiffatto desidera ragazzi e li ama teneramente, perché è attratto sempre dalla specie di cui è parte.

Queste persone – ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di chiunque – quando incontrano l’altra metà di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straordinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall’affinità con l’altra persona, se ne innamorano e non sanno più vivere senza di lei – per così dire – nemmeno un istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dirti cosa s’aspettano l’uno dall’altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie dell’amore: non possiamo immaginare che l’attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C’è qualcos’altro: evidentemente la loro anima cerca nell’altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse:

Che cosa volete l’uno dall’altro?”,

e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora:

“Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell’Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?”

A queste parole nessuno di loro – noi lo sappiamo – dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos’altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l’altra anima.

Non più due, ma un’anima sola. La ragione è questa, che la nostra natura originaria è come l’ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest’ultimo male, ma anche per ottenere le gioie dell’amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista – perché chi resiste all’amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire l’anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben pochi. E che Erissimaco non insinui, giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a Pausania e Agatone: loro due ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io però parlo in generale degli uomini e delle donne, dichiaro che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino al suo fine, così che ciascuno incontri l’anima sua metà, recuperando l’integrale natura di un tempo. Se questo stato è il più perfetto, allora per forza nella situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più possibile alla perfezione: incontrare l’anima a noi più affine, e innamorarcene. Se dunque vogliamo elogiare con un inno il dio che ci può far felici, è ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto: ad Eros, che nella nostra infelicità attuale ci viene in aiuto facendoci innamorare della persona che ci è più affine; ad Eros, che per l’avvenire può aprirci alle più grandi speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci riporterà alla nostra natura d’un tempo: egli promette di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicità.

(Platone, Simposio)

Buongiorno, La Stampa, 21.12.2012

1 Marzo, 2023

Il discorso di Alcibiade

by gabriella

alcibiadesNel Simposio è raccontata l’educazione sentimentale dei giovani di buona famiglia, il nobile scambio della loro bellezza per la sapienza di uomini fatti.

Farsi uomo voleva dire farsi fare (uomo) da un uomo (fatto). Ma si potrebbe dire lo stesso per le donne, vedi la scuola di Lesbo.

La giovinezza e la bellezza fanno di Alcibiade un amato perfetto. Socrate dovrebbe essere l’amante e infatti è questo che Alcibiade si aspetta. Il cortocircuito parte dal rifiuto di Socrate di porsi dal lato della sapienza: Socrate nega di sapere. Non ha niente da dare in questo scambio. Di più: non ha niente da prendere perché la bellezza di Alcibiade non ha valore ai suoi occhi.

Altrove Platone fa dire a Socrate che nell’amicizia (philia) amandosi fra amici si ama sempre il Bene ed è proprio quest’oggetto comune d’amore che tiene uniti gli amici (e gli amanti).

Allora Socrate ha ragione a respingere le pretese di esclusività di Alcibiade: nell’amore di Socrate per i bei ragazzi dall’animo bello e nel loro amore per lui c’è il comune amore per la sapienza, per il Bene desiderato come possesso perenne.

Amore è dunque un patto di ricerca in comune. Lo stesso patto che univa gli iniziati nell’Accademia platonica, come ribadito nella Lettera VII.

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Il discorso di Alcibiade

“Questo disse Socrate. Mentre tutti si complimentavano con lui e Aristofane cercava di dirgli qualcosa perché Socrate di sfuggita aveva fatto una allusione al suo discorso, ecco che si sentì bussare alla porta dell’atrio, e un gran vociare di gente allegra, e la voce di una suonatrice di flauto.
“Ragazzi – disse Agatone – andate a vedere, presto. Se è uno dei miei amici, invitatelo ad entrare. Altrimenti dite che abbiamo già finito di bere e che stiamo andando a dormire.”

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25 Marzo, 2018

Il discorso di Diotima

by gabriella

desiderio

Il sesto a prendere al parola nel Simposio [202 d 8 – 204 c 6] è Socrate che riferisce il discorso di Diotima di Mantinea: l’amore è qualcosa di mezzo tra umano e divino, figlio di mancanza ed espediente, dalla natura desiderante.

Ma cosa sarebbe allora, esclamai, questo Amore? Un mortale?” “Niente affatto” “Ma allora cos’altro è?” “Come nel caso di prima, qualcosa di mezzo fra mortale e immortale.” “Che è dunque, o Diotima?” “Un demone grande, o Socrate. E difatti ogni essere demonico sta in mezzo fra il dio e il mortale. […] Gli dèi non si mischiano con l’uomo, ma per mezzo di Amore è loro possibile ogni comunione e colloquio con gli uomini, in veglia o in sonno. E chi è dotto di queste arti, è un uomo demonico, ma chi è conoscitore di altre tecniche o mestieri non è che un generico. Ora, questi demoni sono molti e vari: uno di questi è anche Amore”.

Eros figlio di Poros e Penìa

Eros figlio di Poros e Penìa

“E suo padre e sua madre, domandai, chi sono?”. “È cosa un po’ lunga da raccontare, rispose, ma a te la dirò. Quando nacque Afrodite gli dèi tennero un banchetto, e fu invitato fra gli altri anche Poro (Espediente) figlio di Metidea (Sagacia).

Ora, quando ebbero finito, arrivò Penia (Povertà), siccome era stata gran festa, per mendicare qualcosa; e si teneva vicino alla porta. Poro intanto, ubriaco di nettare (il vino non esisteva ancora), inoltratosi nel giardino di Zeus, schiantato dal bere si addormentò. Allora Penia, meditando se, contro le sue miserie, le riuscisse d’avere un figlio da Poro, gli si sdraiò accanto e rimase incinta di Amore. Proprio così Amore divenne compagno e seguace di Afrodite, perché fu concepito il giorno della sua nascita, ed ecco perché di natura è amante del bello, in quanto anche Afrodite è bella.

Dunque, come figlio di Poro e di Penia, ad Amore è capitato questo destino: innanzitutto è sempre povero, ed è molto lontano dall’essere delicato e bello, come pensano in molti, ma anzi è duro, squallido, scalzo, peregrino, uso a dormire nudo e frusto per terra, sulle soglie delle case e per le strade, le notti all’addiaccio; perché, conforme alla natura della madre, ha sempre la miseria in casa.

Ma da parte del padre è insidiatone dei belli e dei nobili, coraggioso, audace e risoluto, cacciatore tremendo, sempre a escogitare machiavelli d’ogni tipo e curiosissimo di intendere, ricco di trappole, intento tutta la vita a filosofare, e terribile ciurmatore, stregone e sofista. E sortì una natura né immortale né mortale, ma a volte, se gli va dritta, fiorisce e vive nello stesso giorno, a volte invece muore e poi risuscita, grazie alla natura del padre; ciò che acquista sempre gli scorre via dalle mani, così che Amore non è mai né povero né ricco.

Anche fra sapienza e ignoranza si trova a mezza strada, e per questa ragione nessuno degli dèi è filosofo, o desidera diventare sapiente (ché lo è già), né chi è già sapiente s’applica alla filosofia. D’altra parte, neppure gli ignoranti si danno a filosofare né aspirano a diventare saggi, ché proprio per questo l’ignoranza è terribile, che chi non è né nobile né saggio crede d’aver tutto a sufficienza; e naturalmente chi non avverte d’essere in difetto non aspira a ciò di cui non crede d’aver bisogno”.

“Chi sono allora, o Diotima, replicai, quelli che s’applicano alla filosofia, se escludi i sapienti e gli ignoranti?”. “Ma lo vedrebbe anche un bambino, rispose, che sono quelli a mezza strada fra i due, e che Amore è uno di questi. Poiché appunto la sapienza lo è delle cose più belle ed Amore è amore del bello, ne consegue necessariamente che Amore è filosofo, e in quanto tale sta in mezzo fra il sapiente e l’ignorante. Anche di questo la causa è nella sua nascita: è di padre sapiente e ingegnoso, ma la madre è incolta e sprovveduta. E questa è proprio, o Socrate, la natura di quel demone. Quanto alla tua rappresentazione di Amore, non c’è da meravigliarsi; perché tu credevi, per quanto posso dedurre dalle tue parole, che Amore fosse l’amato, non l’amante; e per questo, penso, Amore ti appariva bellissimo. E in realtà ciò che ispira amore è bello, delicato, perfetto e beato, ma l’amante ha un’altra natura, come ti ho spiegato”».

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25 Marzo, 2018

Il discorso di Aristofane

by gabriella

Il commediografo Aristofane è il quarto commensale a parlare nel Simposio platonico [189 d 5 -193 a 1]: presenta l’amore come simbolo e ricomposizione di un intero.

androgino

androgino

Bisogna innanzi tutto che sappiate qual è la natura dell’uomo e quali prove ha sofferto; perché l’antichissima nostra natura non era come l’attuale, ma diversa. In primo luogo l’umanità comprendeva tre sessi, non due come ora, maschio e femmina, ma se ne aggiungeva un terzo partecipe di entrambi e di cui ora è rimasto il nome, mentre la cosa si è perduta. Era allora l’androgino, un sesso a sé, la cui forma e nome partecipavano del maschio e della femmina: ora non è rimasto che il nome che suona vergogna.

In secondo luogo, la forma degli umani era un tutto pieno: la schiena e i fianchi a cerchio, quattro bracci e quattro gambe, due volti del tutto uguali sul collo cilindrico, e una sola testa sui due volti, rivolti in senso opposto; e così quattro orecchie, due sessi, e tutto il resto analogamente, come è facile immaginare da quanto se detto. […] Possedevano forza e vigore terribili, e straordinaria superbia; e attentavano agli dèi. Pertanto Zeus e gli altri dèi andavano arrovellandosi che dovessero fare ed erano in grave dubbio perché non se la sentivano di ucciderli e farli sparire fulminandoli come i giganti, né potevano lasciarli insolentire. Ma finalmente Zeus, pensa e ripensa:

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