Archive for ‘Filosofia’

5 Maggio, 2013

Ernst Bloch, Ateismo nel cristianesimo

by gabriella

Gesu scaccia i mercanti dal tempio 2Uomini e profeti discuteva oggi del rinnovamento delle chiese cristiane alla luce della ricerca storica sulla figura di Gesù. Le lettura scelta dalla redazione per introdurre il dibattito tra la conduttrice e i due storici in studio (Adriana Destro e Mauro Pesce) è stata tratta da Ateismo nel cristianesimo. Per la religione dell’Esodo e del Regno, (Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 107-108) nella quale Bloch riflette sul significato della mitezza e dell’ira del Cristo.

Lo spirito della rivolta si precipitò giù dal Salvatore e nei vigneti di Francia apparve la luce del suo furore.

William Blake

Aut Caesar aut Christus – Mitezza e «luce del suo furore» (William Blake)

Vi sono agnelli nati che si fanno piccoli piccoli spesso e volentieri. Ciò è insito nella loro specie e Gesù non ha predicato per essi con violenza, come si dice nella Scrittura. Tanto meno egli ci compare di fronte in un aspetto così mitigato, come intende la brava gente, meno che mai come i lupi lo hanno adattato ad uso delle pecore, affinché esse possano conservare doppiamente la loro natura.

Il loro ben noto pastore viene presentato così succube, così illimitatamente paziente, come se egli non fosse null’altro che questo. Il fondatore avrebbe dovuto essere libero da ogni passione e tuttavia veniva preso da una delle più forti: l’ira. Tanto che egli rovesciò nel tempio i tavoli dei cambiavalute, né si dimenticò di usar la frusta. Gesù dunque è paziente solo quando si trova nel cerchio silenzioso dei suoi: invero non pare affatto che egli ami i loro nemici. Veniamo ora alla predicazione della montagna: essa non si propone di certo di eccitare gli uomini l’uno contro l’altro per amore di Cristo, come Gesù fanaticamente consiglierebbe ai suoi discepoli (Matt. 10, 35). La predicazione della montagna in cui vengono chiamati beati i miti e i pacifici non è legata ai giorni della lotta ma alla fine dei giorni, che Gesù credeva già vicina conformemente alla predicazione del mandeo Giovanni; dal che consegue il rapporto “istantaneo” e chiliasticamente “immediato” con il regno dei cieli (Matt. 5, 3).

Nondimeno a sancire la “lotta” necessaria per l'”avvento” del regno sta la parola: «Io non sono venuto a portare la pace ma la spada» (Matt. 10, 34). E giunge parimenti il fuoco che scava, in un senso che non è affatto solo interiore ma esteriore: «Io sono venuto ad accendere un fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso» (Luc. 12, 49). Questo intendono appunto i versi di William Blake nella conclusione riferibile al 1789: «Lo spirito della rivolta si precipitò giù dal Salvatore e nei vigneti di Francia apparve la luce del suo furore.»

Certamente la spada, che come il fuoco non solo distrugge ma purifica, viene rivolta nella predicazione di Gesù contro qualcosa di più dei semplici palazzi: essa si scaglia contro tutto il vecchio eone, poiché esso deve sparire, e primi tra tutti i ricchi, nemici dei miseri e degli oppressi, che così a fatica entrano nel regno dei cieli come – con tutta la ironia dell’impossibile – il cammello attraverso la cruna d’un ago. In seguito la chiesa ha di molto allargato la cruna dell’ago e di conseguenza il suo Gesù è stato strappato via dalla prospettiva della rivolta. Così accadde che contro i facitori d’ingiustizia si giocò la carta della mitezza e non dell’ira di Gesù.

cammello

30 Aprile, 2013

Gianni Vattimo, Metafisica degli esclusi (o della libertà) vs metafisica delle auctoritates (o della necessità)

by gabriella

Traggo da L’Indice dei libri del mese, il testo della conferenza tenuta da Gianni Vattimo il 24 ottobre 2011 – su invito della Alexander von Humboldt Stiftung – dal titolo Quale metafisica, quale realtà? nella quale il filosofo sviluppa una riflessione sul bisogno di metafisica al servizio delle opposte necessità di concentrazione e controllo e di libertà e pluralità.

Che differenza c’è tra il bisogno di metafisica affermato dalle auctoritates, che lamentano la perdita della morale civile e religiosa dei popoli rovinati dal “nichilismo” postmoderno, dal multiculturalismo dilagante, in fondo dall’eccesso di libertà – da un lato – e il bisogno di metafisica dei rivoluzionari e di tutti i rivoltosi che si sentono legittimati dai “diritti umani” universali?

Max WeberMax WeberLa differenza, come è facile vedere, sta nel fatto che alcuni invocano la metafisica per mantenere lo status quo – la morale familiare tradizionale, il potere sacrale delle gerarchie religiose, anche semplicemente la validità “oggettiva” della scienza ufficiale o l’indiscutibilità dell’opinione pubblica mainstream dei grandi giornali e delle grandi catene televisive; mentre altri si richiamano alla metafisica come a una verità che si oppone criticamente allo status quo e vuole cambiarlo. Viene in mente qui una frase di un grande filosofo nordamericano (e grande amico) scomparso negli anni recenti, Richard Rorty, che diceva:

“Prendetevi cura della libertà, la verità si difenderà da sé”.

Inteso in questo senso, il “bisogno di metafisica” non è qualcosa di nuovo, ha una storia identica a quella dell’umanità o almeno dell’homo sapiens, dell’homo politicus che vive in una società e deve fare i conti con i rapporti di forza. Questo si può esprimere con l’aforisma con cui Nietzsche inizia il primo volume di Umano, troppo umano:

“I problemi filosofici riprendono oggi la stessa forma che avevano duemila anni fa”.

Ma ciò perché, come Nietzsche indica in tante altre pagine della sua opera, viviamo ormai in una società caratterizzata da una “selvatichezza indiana” (la società capitalistica già così fiorente al suo tempo), dove – ed è questo il senso del nichilismo che noi chiamiamo postmoderno – i valori supremi si sono svalutati, e vige un politeismo dei valori, come lo chiama Max Weber, in cui nulla funge più da punto di riferimento definitivo e bisogna prender atto che nessuno può parlare dal punto di vista (divino) della verità universale. Anche i differenti significati che può assumere il bisogno di metafisica esprimono il politeismo dei valori, sono resi possibili dall’avvento del nichilismo.

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28 Aprile, 2013

Gilles Deleuze, I concetti di genealogia e di senso

by gabriella

Gilles Deleuze ritratto da Michel Tournier negli anni '50

Traggo da uno dei testi fondativi della Nietzsche renaissance e prima grande opera di Gilles Deleuze – Nietzsche et la philosophie (1962), trad. it. Nietzsche e la filosofia, Torino, Einaudi, 2002 – i due paragrafi iniziali dedicati ai concetti di genealogia e di senso [l’evidenziazione in grassetto è mia, quella in corsivo di Deleuze].

 

1. Il concetto di genealogia

Nel suo significato più ampio, il progetto di Nietzsche consiste nell’introduzione dei concetti di senso e di valore in filosofia. Non v’è dubbio che gran parte della filosofia contemporanea è vissuta e vive tutt’ora di Nietzsche; forse però non nel modo in cui egli avrebbe desiderato.

Nietzsche nonNietzsche nel 1875 all'epoca delle Considerazioni Inattuali ha mai tenuto nascosto il fatto che la filosofia del senso e dei valori dovesse essere una critica. Così Kant non ha condotto la vera critica perché non ha saputo porne il problema in termini di valori; e ciò costituisce uno dei spunti principali da cui muove l’opera nietzscheana.

Ora, nella filosofia contemporanea la teoria dei valori ha dato vita ad un nuovo conformismo e a nuove forme di sottomissione. La stessa fenomenologia ha contribuito, mediante il suo apparato, a far sì che quell’ispirazione nietzscheana in essa spesso presente, si assoggettasse al moderno conformismo. Nel caso di Nietzsche dobbiamo prendere le mosse dal fatto che la filosofia dei valori, com’è da lui istituita e intesa, è la vera realizzazione della critica, il solo modo di realizzare al critica totale, ossia di fare filosofia a “colpi di martello”. La nozione di valore implica infatti un sovvertimento critico. Da una parte i valori sembrano o si fanno passare per principi: una valutazione presuppone determinati valori sulla cui base stimare i fenomeni. D’altra parte, però, se si va più a fondo, sono i valori a presupporre valutazioni, “punti di vista di apprezzamento” da cui proviene il loro stesso valore. Il problema critico sta nel valore dei valori, nella valutazione dalla quale deriva il loro valore; è il problema della loro creazione.

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24 Aprile, 2013

Noam Chomsky, Can civilisation survive really existing capitalism?

by gabriella

Traggo da Come Don Chisciotte, la traduzione del discorso tenuto da Noam Chomsky il 13 aprile 2013 al Collegio Universitario di Dublino in occasione del conferimento della UCD Ulysses Medal. Nell’evidenziare l’incompatibilità della democrazia e della stessa sopravvivenza del pianeta con il capitalismo reale (che lo studioso distingue da quello ideale, espressione delle teorie politiche ed economiche sorte nel XVI° secolo), Chomsky si sofferma sulla manipolazione dei pubblici in relazione ai grandi temi contemporanei (giustizia, cambiamento climatico), concludendo che è probabilmente per contenere la crescita della consapevolezza sociale che nel XXI secolo è stato demolito il sistema educativo nella maggior parte dei paesi capitalisti.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=_uuYjUxf6Uk]

Può la civiltà sopravvivere al capitalismo reale? [Si veda anche Le 10 leggi del potere].

Il capitalismo oggi esistente è radicalmente incompatibile con la democrazia.

Vi è il “capitalismo” e poi c’è il “capitalismo reale”.

Il termine “capitalismo” è comunemente usato riferendosi al sistema economico degli USA, che prevede considerevoli interventi dello Stato, i quali vanno dai sussidi per l’innovazione creativa alla politica assicurativa “too-big-to-fail” (troppo-grandi-per-fallire, ndr) del governo per le banche.

Il sistema è altamente monopolizzato e ciò limita ulteriormente la dipendenza dal mercato, in modo crescente: negli ultimi 20 anni la quota dei profitti delle 200 imprese più importanti è aumentata enormemente, riporta l’accademico Robert W. McChesney nel suo nuovo libro Digital disconnect.

In questo momento “capitalismo” è un termine comunemente usato per descrivere sistemi nei quali non ci sono capitalisti; per esempio il conglomerato-cooperativa Mondragón nella regione basca in Spagna, o le imprese-cooperative che si espandono nel nord dell’Ohio, spesso con il sostegno conservatore – entrambe esaminate in un’importante ricerca dell’accademico Gar Alperovitz.

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14 Aprile, 2013

Ernesto De Cristofaro, Una libertà controversa. Il diritto di possedere e portare armi negli Stati Uniti

by gabriella

founding_fathers_gunsIl Rasoio di Occam approfondisce la questione del diritto alle armi che negli Stati Uniti gode di tutela costituzionale. Il tema, da tempo al centro del dibattito politico e giuridico americano non si lascia infatti ridurre agli interessi economici che solleva e alle pressioni politiche corrisponenti, ma investe le radici ideali della cultura costituzionale americana, a partire dalle quali il diritto ad essere armati mostra di avere pressoché lo stesso rilievo di altri diritti fondamentali  della persona.

Quando un uomo con la pistola incontra un uomo
col fucile, quello con la pistola è un uomo morto.
S. Leone, Per un pugno di dollari (1964)

Le stragi nei luoghi pubblici – scuole, università, residenze studentesche, cinema – rientrano tra i delitti che negli ultimi anni hanno scosso nel modo più intenso l’opinione collettiva degli Stati Uniti (ma i mass media ne hanno amplificato l’impatto su una scala molto più ampia), generando acuti sentimenti di sdegno ed esecrazione. Ogni crimine violento contro una o più persone è egualmente inaccettabile sul piano morale, ma questo tipo di eventi ha – persino se confrontati al terrorismo di matrice politica o religiosa, vulnus primario della memoria americana nell’epoca più recente – specifiche caratteristiche che enfatizzano le reazioni di repulsione e rabbia: il fatto che sovente le vittime siano adolescenti o bambini colpiti nelle scuole, luoghi-simbolo della prima socializzazione; inoltre, il fatto che essendo molto spesso tali aggressioni effetto di azioni solitarie da parte di individui giovani e incensurati, esse siano del tutto imprevedibili quanto alla tempistica, agli obiettivi, alle modalità di esecuzione ed ai possibili esiti. Una duplice angoscia si genera, dunque, considerando la dinamica di questi fatti sia dal versante delle vittime che da quello dei colpevoli.

Nell’ultimo quindicennio, periodo successivo alla strage nella Columbine high school verificatasi il 20 aprile del 1999 a Littleton (Colorado)[1], il dibattito psecond amendementubblico sulla circolazione delle armi, sulla loro accessibilità e sull’assenza (o l’insufficienza) di controlli che garantiscono a questi articoli livelli di diffusione equivalenti a quelli dei più comuni beni di mercato è stato riacceso con frequente cadenza di fronte ai nuovi episodi che hanno riaperto le ferite appena cicatrizzatesi dei precedenti, sino al picco traumatico del 14 dicembre 2012, data dell’uccisione di venti bambini in una scuola elementare a Newtown (Connecticut)[2]. In quasi nessun caso, e nemmeno in quest’ultimo – rispetto al quale il governo aveva deciso di reagire varando restrizioni alla vendita di armi automatiche ad alto potenziale offensivo (le c.d. armi d’assalto)[3] – si è messo radicalmente in discussione il principio di fondo, ossia che pistole e fucili possano essere commercializzati come avviene per altri oggetti di consumo.

Ma contrariamente a una tesi riduzionista, sebbene suggestiva, tale idea non è – o non è solo – la conseguenza del forte potere di pressione della “lobby delle armi”[4], bensì trova il suo fondamento nel secondo emendamento della Carta dei diritti (Bill of rights), che dal 1791 accompagna la Costituzione degli Stati Uniti. Esso recita così:

Essendo una milizia ben organizzata necessaria alla sicurezza di uno Stato libero, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto.

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8 Aprile, 2013

Gustavo Zagrebelsky, La cultura, patto fondativo della nostra convivenza

by gabriella

ZagrebelskyDa Micromega la riflessione platonico-socratica di Zagrebelsky sull’art. 33. «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»: il fondamento di ogni convivenza non può che essere la ricerca non strumentale (dunque autenticamente libera) nei suoi legami con la cittadinanza e la democrazia.

La società non è la mera somma di molti rapporti bilaterali concreti, di persone che si conoscono reciprocamente. È un insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono come facenti parte d’una medesima cerchia umana, senza che gli uni nemmeno sappiano chi gli altri siano. Come può esserci vita comune, cioè società, tra perfetti sconosciuti? Qui entra in gioco la cultura.

Consideriamo l’espressione: io mi riconosco in… Quando sono numerosi coloro che non si conoscono reciprocamente, ma si riconoscono nella stessa cosa, quale che sia, ecco formata una società. Questo “qualche cosa” di comune è “un terzo” che sta al di sopra di ogni uno e di ogni altro e questo “terzo” è condizione sine qua non d’ogni tipo di società, non necessariamente società politica. Il terzo è ciò che consente una “triangolazione”: tutti e ciascuno si riconoscono in un punto che li sovrasta e, da questo riconoscimento, discende il senso di un’appartenenza e di un’esistenza che va al di là della semplice vita biologica individuale e dei rapporti interindividuali.

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2 Aprile, 2013

Eleonora de Conciliis, Destino e denaro

by gabriella

criminalita-organizzata

Da Kainós, una sociologia della criminalità organizzata di rara finezza volta ad indagare le trasformazioni delle forme di vita criminale nel tardo capitalismo.

1. Le riflessioni che seguono non vogliono essere squisitamente filosofiche, né vagamente sociologiche, e neppure provocatoriamente politiche, ma, in senso foucaultiano, genealogiche. È stato infatti Michel Foucault ad aver fornito, in Sorvegliare e punire (1975), la più acuta ricerca genealogica sull’origine della prigione moderna, ed è nella sua produzione degli anni settanta che possiamo trovare ancor oggi spunti fecondi per analizzare le forme di vita criminali, le ‘vite degli uomini infami’ che proliferano nell’epoca contemporanea1. Tuttavia, per ragioni non solo espositive2, mi servirò inizialmente di una nozione proveniente dalla sociologia di Pierre Bourdieu, applicandola con una certa disinvoltura metodologica al mondo della criminalità organizzata: la nozione di campo.3

Tra le numerose definizioni che Bourdieu ci ha lasciato del concetto di campo, ne ho scelta volutamente una coniata per il campo politico, in quanto risulta assai compatibile sia con l’analisi foucaultiana del nesso sistematico legalità-crimine (capace dunque di indicare l’intimo intreccio tra economia politica e mafia), sia con il funzionamento delle strutture ‘chiuse’ del potere pastorale, siano esse religiose, militari, politiche o para-politiche (ordini, sette, brigate e reparti di un esercito, partiti e ‘famiglie’ mafiose). Secondo il sociologo francese, il campo è infatti un

“microcosmo, ossia un piccolo mondo sociale relativamente autonomo nel mondo sociale più grande. […] Autonomo, secondo l’etimologia, vuol dire che ha una sua propria legge, un suo proprio nomos, che detiene al suo interno il principio e la regola del suo funzionamento. È un universo nel quale sono all’opera criteri di valutazione a lui propri e che non hanno valore nei microcosmi vicini. Un universo obbediente alle proprie leggi, che differiscono da quelle del mondo sociale ordinario. Chi [vi] entra deve operare una trasformazione, una conversione e, anche se quest’ultima non gli appare come tale, anche se egli non ne ha coscienza, gli è tacitamente imposta, in quanto un’eventuale trasgressione comporterebbe scandalo o esclusione”.4

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31 Marzo, 2013

Junius Brutus, Vindiciae contra tyrannos 1579

by gabriella
Philippe_Duplessis-Mornay_(1549-1623)

Philippe de Mornay (1549-1623)

Vindiciae contra tyrannos fu scritto in latino nel 1579, probabilmente dall’ugonotto Philip de Mornay – sfuggito sette anni prima al massacro della Saint-Barthélemy -che si firmò con lo pseudonimo di Junius Brutus. Il sottotitolo di questo classico del diritto di resistenza recita: Del potere legittimo del monarca sul popolo e del popolo sul monarca; nella prima traduzione francese si apre con il commento «trattato molto utile e degno di lettura in questi tempi». Qui sotto la versione inglese, qui l’interpretazione di Diego Quaglioni dell’Università di Palermo.

 

A Defence of Liberty Against Tyrants

Contents

Question One: Whether subjects are bound to obey princes... 3

The Covenant between God and Kings 7

Question Two: Whether it is lawful to resist a prince who infringes the law of God. 15

Whether private men may resist by arms. 29
Whether it be lawful to take arms for religion. 31

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30 Marzo, 2013

Gabriele Scardocci, Crisi e morte della verità oggettiva. Relativismo e prospettivismo in Nietzsche

by gabriella

NietzscheIl relativismo etico è attualmente una concezione della morale molto discussa negli ambiti politici e filosofici, ed in ambito religioso essa è addirittura definita come una ideologia del male. Scopo di questo elaborato, è ricercare ed indagare le concettualizzazzioni gnoseologiche dietro al fenomeno “relativismo”, per mostrarne punti di luce e punti d’ombra ad esso inerente, onde evitare che in ambiti extra filosofici e non venga troppo travisato. I limiti di una ricerca filosofica sul fenomeno “relativismo” debbono essere subito posti: il relativismo è un tema trattato sin dagli albori della filosofia greca, ed ha percorso insieme all’uomo tutte le fasi della sua crescita intellettuale. Ma trattare tutte queste parti, e sussumerle in un unicum che debba anche essere sintetico risulterebbe una ricerca superficiale e improponibile. Perciò, l’autore dell’elaborato si concentrerà su un filosofo che anch’egli si è occupato del fenomeno “relativismo”: F .W .Nietzsche (1844-1900).

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27 Marzo, 2013

Riccardo Antoniucci, Intervista a Marc Crépon su Jacques Derrida

by gabriella

JacquesDerridaDal Rasoio di Occam, l’intervista di Riccardo Antoniucci a Marc Crépon, direttore dell’École Normale Supérieure, a margine del convegno sul pensiero politico di Jacques Derrida, tenutosi ad Atene dal 24 al 26 gennaio 2013.

Professor Crépon, la prima domanda che vorrei porle, e che, trattandosi di una questione sul senso, non è aliena da una certa “bêtise”, riguarda proprio i due aggettivi con cui si è voluto qualificare il pensiero di Derrida durante questo convegno: “politico” ed “etico”. Possiamo tentare di chiarire meglio il nesso esistente tra il pensiero di Derrida e i campi descritti dai due termini. “Pensiero politico” e “pensiero della politica” non sono la stessa cosa, ovviamente. Eppure, di solito, un pensiero non è detto “politico” se non è anche riconosciuto, parallelamente, come “pensiero della politica”, o del politico. Cioè come pensiero delle condizioni e delle tecniche proprie all’azione politica in un contesto storico determinato. Per cui spesso la “filosofia politica” si riduce a una serie di riflessioni su problemi che sono posti dall’attualità della pratica di governo o dell’amministrazione della società. Tuttavia, questo parallelismo non sembra operativo nel pensiero di Derrida: la sua riflessione, senza essere stata “condizionata” da temi provenienti dal dibattito politico, li ha piuttosto “rilanciati”, riverberati, in un’altra forma; addirittura, in alcuni casi, li trasformati, passandoli al filtro del suo singolare approccio filosofico. Per esempio, ha rilanciato il problema della democrazia attraverso il concetto di ospitalità. Insomma, il pensiero di Derrida si presenta come un caso singolare di pensiero. che non è un pen siero della politica. La sua battaglia, dunque, si muove piuttosto nell’elemento della filosofia politica oppure della “politica della filosofia”, che non si interessa delle pratiche concrete di governo?

Marc Crépon – È vero che nell’opera di Derrida non si trova una riflessione sviluppata intorno alle forme di governo. Eppure, la possibilità di qualificare il suo pensiero come “politico” è innegabile, a dispetto di tutte le riserve che impone l’idea stessa di “qualificazione” in generale. Ed è innegabile almeno per due ragioni. La prima è che, se è vero che, a partire dai tre grandi libri del 1967 (1), uno dei fili conduttori del suo pensiero è stata la decostruzione del soggetto sovrano, era allora inevitabile che Derrida incrociasse la questione della sovranità in sé, nella sua accezione politica.

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