Archive for ‘Filosofia’

18 Gennaio, 2013

Hannah Arendt, Alle origini de “La banalità del male”

by gabriella

arendt

Traggo dal Repertorio di fonti della Biblioteca di Filosofia e Storia dell’Università di Pisa, i link agli articoli scritti da Hannah Arendt per il New Yorker sul processo Eichmann.

Nel 1961 Hannah Arendt seguì a Gerusalemme il processo Eichmann come corrispondente del «The New Yorker» e fu sulle colonne di quel giornale che questo resoconto (scritto tra l’estate e l’autunno del 1962 e terminato nel novembre del medesimo anno mentre la Arendt era ospite del Center for Advanced Studies della Wesleyan Universty) uscì per la prima volta, nel febbraio e nel marzo 1963.

Esso fu poi ripubblicato in forma più ampia, come libro, nel maggio 1963, con il titolo Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality od Evil (nelle edizioni in lingua italiana: La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme).

Negli archivi online del «The New Yorker» si possono leggere le cinque parti del resoconto del processo al gerarca nazista Adolf Eichmann nella sua versione originale (cliccare sulla riproduzione delle pagine per ingrandire le immagini, l’attesa può durare anche un paio di minuti):

>> Parte prima

>> Parte seconda

>> Parte terza

>> Parte quarta

>> Parte quinta

16 Gennaio, 2013

Donatella Di Cesare, La lingua madre parlò la lingua della morte

by gabriella

heidegger

Come una specie di seconda pelle, che ci avvolge dal primo all’ultimo giorno, l’idioma materno non si può tradurre e non si può tradire. E’ la sola dimora che resta, malgrado la spaesatezza dell’uomo nel mondo: una idea rassicurante. Per gli esuli, innanzi tutto, da Arendt a Améry, da Adorno a Canetti, da Anders a Celan. Ma è davvero così? L’estraneità e l’ostilità con cui la lingua tedesca ha investito gli ebrei dice il contrario. Se è vero che la lingua è matrice della ragione, allora condivide le colpe del nazismo

Non sentirsi a casa propria è per Heidegger, già in Essere e tempo, la peculiarità dell’uomo moderno. Subito dopo la guerra, nella famosa Lettera sull’«umanismo» del 1946, il filosofo tedesco dichiara:

La spaesatezza diviene un destino mondiale.

Ma l’assenza di patria, di Heimat, intesa soprattutto come esilio dalla verità, lascia aperta la domanda sul ritorno. Ci sarà ancora la possibilità, una volta perduto l’antico terreno, di trovarne uno nuovo? Si potrà recuperare l’origine, e la propria terra d’origine? La questione del «ritorno in patria» esplode però alla fine degli anni `40, quando comincia il rientro degli emigrati nei paesi d’origine. Se la patria è la Germania, e gli esuli sono ebrei, la questione diviene conflittuale, ma anche perspicua, e offre lo spunto per una riflessione generale sull’esilio. Nella diaspora ebraica, prima e durante la Shoah, si comincia a vedere prefigurata la condizione umana dell’esilio nell’età della mondializzazione.

Di quanta patria ha bisogno l’uomo?

– si chiede Jean Améry, pseudonimo francese per il tedesco Hans Mayer, nel suo libro Intellettuale a Auschwitz. La risposta che dà è ferma ma, nella sua fermezza, è conservatrice: l’uomo ha bisogno di molta patria, e ne ha tanto più bisogno quanto meno può portarne via con sé. La patria è il luogo d’origine insostituibile: «una nuova patria non esiste». Se l’esilio, sopportato perché temporaneo, è stato ed è – come direbbe Cioran – solo una «Città del Nulla», che cosa resta agli esuli, espatriati, privati dal nazismo della loro origine?

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6 Gennaio, 2013

Jean-François Lyotard, La condition postmoderne

by gabriella

In un dibattito televisivo del gennaio 1989, Jean-François Lyotard discute con Luc Ferry, Michel Maffesoli ed altri protagonisti della cultura francese del secolo scorso, di modernità e postmodernità. Colpisce notare come, negli anni ’90, il potenziale oppressivo della postmodernità, pur evocato con impressionante lucidità proprio da Lyotard dieci anni prima, non avesse ancora dispiegato pienamente il dispositivo che regola il presente, tanto che Ferry e il moderatore potevano concludere proprio sottolineando la promessa democratica contenuta nella fine delle narrazioni totalizzanti.

4 Gennaio, 2013

Raoul Vaneigem, Eloge de la paresse affinée (Elogio della pigrizia raffinata)

by gabriella
vaneigem

Un estratto del testo di Vaneigem dedicato alla critica del lavoro, uscito nel 1996 (riedito nel 2005) per le Editions Turbulentes di Digione.

Dans l’opinion qui s’est forgée à son propos, la paresse a beaucoup gagné au discrédit croissant dont s’est grevé le travail. Longtemps érigé en vertu par la bourgeoisie, qui en tirait profit, et par les bureaucraties syndicales, auxquelles il assurait leur plus-value de pouvoir, l’abrutissement du labeur quotidien a fini par se faire reconnaître pour ce qu’il est : une alchimie involutive transformant en un savoir de plomb l’or de la richesse existentielle.

Cependant, l’estime dont se prévaut la paresse n’en continue pas moins à souffrir de la relation de couple qui, dans la sotte assimilation des bêtes à ce que les humains ont de plus méprisable, persiste à accoler la cigale et la fourmi. Qu’on le veuille ou non, la paresse demeure prise au piège du travail qu’elle rejette en chantant.

Quand il s’agit de ne rien faire, la première idée n’est-elle pas que la chose va de soi ? Hélas, dans une société où nous sommes sans relâche arrachés à nous-mêmes, comment aller vers soi sans encombre ? Comment s’installer sans effort en cet état de grâce où ne règne plus que la nonchalance du désir ?

Tout n’est-il pas mis en branle pour troubler, par les meilleures raisons du devoir et de la culpabilité, le loisir serein d’être en paix en sa seule compagnie ? Georg Groddeck percevait avec justesse dans l’art de ne rien faire le signe d’une conscience vraiment affranchie des multiples contraintes qui, de la naissance à la mort, font de la vie une frénétique production de néant.

Nous sommes si pétris de paradoxes que la paresse n’est pas un sujet sur lequel on puisse s’étendre simplement, comme y convierait la nature si toutefois la nature pouvait s’aborder sans détours.

Le travail a dénaturé la paresse. Il en a fait sa putain dans le même temps que le pouvoir patriarcal voyait dans la femme le repos du guerrier. Il l’a affublée de ses faux-semblants, quand la morgue des classes sociales exploiteuses identifiait l’activité laborieuse à la seule production manuelle.

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3 Gennaio, 2013

Paolo Virno, Della capacità di dire come NON stanno le cose

by gabriella

Vale, come sempre, la pena di ascoltare dalla voce di Paolo Virno, cosa significa dire no, prendere le distanze dal presente e in che misura questa capacità è propria di “noialtri, animali linguistici”. Questa imperdibile lezione, dal titolo L’azione innovativa. L’animale umano e la logica del cambiamento, è stata tenuta dal filosofo napoletano il 7 ottobre 2011 alla Fondazione del Collegio San Carlo di Modena.

Di seguito, la trascrizione dei primi dieci minuti audio.

Grazie a voi per la pazienza che avrete nell’ascoltare queste riflessioni sulla difficoltà di dire di no. La difficoltà di dire di no è un bel titolo di un filosofo tedesco, più interessante di Habermas e dunque non tradotto in italiano, che vorrei adottare per queste riflessioni. Io non ho molta confidenza con il termine “utopia”, raramente mi è capitato di usare questa parola, non ho molta confidenza con l’utopia. Questo è uno svantaggio perché con i concetti con cui non si ha confidenza si rischia la goffaggine e l’esitazione, però può essere anche un vantaggio, nel senso di guardare a questo oggetto teorico, l’utopia, con occhi sgombri da un eccesso di letture e di pregiudizi.

Io vi propongo, come nostra morale provvisoria in quest’incontro, di considerare l’utopia – non è l’unica definizione possibile, diciamo pure che non è la migliore – come la possibilità da parte di noialtri, viventi che hanno il linguaggio, di prendere le distanze dal presente. Ossia di essere in qualche modo, non per merito eccezionali, non in virtù di esperienze stravaganti, ma fisiologicamente, per come noi siamo perlopiù, di essere inattuali. Questo vuol dire credo, guadagnare una distanza dal presente, eludere quell’eterno presente che la tradizione vuole essere tipica – chissà se poi è vero o no – di Dio e degli animali non linguistici. Gli animali non linguistici e – ma su questo non saprei cosa dire, anche Dio – non hanno alcuna forma di inattualità, sono perfettamente attuali, il che detto altrimenti, significa che sono racchiusi, incastrati da un eterno presente.

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23 Dicembre, 2012

Voltaire

by gabriella
1 Dicembre, 2012

Giorgio Agamben, Il futuro, un credito da esigere

by gabriella

AgambenNon riuscendo a togliermi dalla mente l’espressione drammatica di Adele Marri mentre pronuncia il suo atto d’accusa davanti al Rettore dell’Università di Parma e al ministro Clini, ho ripensato a un intervento di Giorgio Agamben a Chiodo fisso (Radiorai3) sull’essenza (e assenza) del futuro e il significato della speranza. Eccolo nella trascrizione curata da Gabriella Gai.

La situazione disperata dell’epoca in cui vivo, mi riempie di speranza
Karl Marx

Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima che accada
Reiner Maria Rilke

Per capire il signifcato del futuro, dobbiamo capire che cosa significa un’altra parola che non siamo più abituati a usare, che piuttosto siamo abituati a usare soltanto nella sfera religiosa, la parola fede: senza fede o fiducia non è possibile futuro, c’è futuro solo se possiamo sperare o credere in qualcosa.

Ma che cos’è la fede?

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16 Novembre, 2012

Herman T. Tavani, Philosophical Theories of Privacy: Implications for an Adequate Online Privacy Policy (2007)

by gabriella

Considerato che giusto ieri mi sono sentita proporre per la stipula di una polizza RCA sull’auto di mio figlio, uno sconto di cento euro se avessi accettato di farvi installare una scatola nera, leggerò presto questa ricognizione filosofica delle teorie della privacy.

Consiglio chi voglia cimentarsi, di leggere prima (o durante) i classici degli anni ’90 e ’00 sulla sorveglianza: Gilles Deleuze, Poscritto alle società di controllo e David Lyon, L’occhio elettronico. Privacy e filosofia della sorveglianza (1994) [qui l’originale inglese] e La società sorvegliata (2001). Gli strumenti per pensare tutto questo sono foucaultiani, ne parla nel video seguente l’ex garante per la privacy, Stefano Rodotà.

 

Pubblicato in “Metaphilosophy”,Volume 38, Issue 1, pages 1–22, January 2007.

Abstract: This essay critically examines some classic philosophical and legal theories of privacy, organized into four categories: the nonintrusion, seclusion, limitation, and control theories of privacy. Although each theory includes one or more important insights regarding the concept of privacy, I argue that each falls short of providing an adequate account of privacy. I then examine and defend a theory of privacy that incorporates elements of the classic theories into one unified theory: the Restricted Access/Limited Control (RALC) theory of privacy. Using an example involving data-mining technology on the Internet, I show how RALC can help us to frame an online privacy policy that is sufficiently comprehensive in scope to address a wide range of privacy concerns that arise in connection with computers and information technology.

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15 Novembre, 2012

David Sussman, What’s Wrong with Torture?

by gabriella

guantanamoDopo Beccaria, la liceità della tortura non era più stata affermata e si sarebbe potuto credere che, con forte anticipo rispetto alla pena di morte, fosse stata definitivamente bandita dalle legislazioni democratiche. Questo studio  filosofico esamina il ritorno del dibattito sulle possibili eccezioni alla messa al bando delle sevizie [nell’immagine a lato, il trattamento riservato ai prigionieri di guerra a Guantanamo [Guantanamo forever]. Qui, un articolo di Repubblica sulla condanna dell’agente della CIA che ha rivelato la pratica del waterboarding negli interrogatori di polizia].

Pubblicato in “Philosophy & Public Affairs”, Volume 33, Issue 1, pages 1–33, January 2005.

Why is torture morally wrong? This question has been neglected or avoided by recent moral philosophy, in part because torture is by its nature especially difficult to discuss. Torture involves degrees of pain and fear that are often said to be utterly indescribable; indeed, these experiences are sometimes said to destroy in their victims the very hope of any sort of communication or shared experience whatsoever.1 Torture has proved surprisingly difficult to define.2 There is no clear agreement on the distinction between torture, coercion, and manipulation, or whether such techniques as sleep and sensory deprivation, isolation, or prolonged questioning should count as forms of torture.3 In addition, we may be fearful of deriving some sort of perverse titillation from the subject, or of being able to dispassionately contemplate the agonies of real victims of torture. Those who have not suffered torture may well feel it is not their place to offer any very substantive reflections on the practice, leaving the issue to those who unfortunately know what they are talking about. We might also worry that in just raising the question, we inadvertently give aid and comfort to torturers, if only by supplying materials for disingenuous self-justification.

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15 Novembre, 2012

Joshua Shaw, Philosophy of Humor

by gabriella

Pubblicato in “Philosophy Compass”, Volume 5, Issue 2, pages 112–126, February 2010.

Abstract

Humor is a surprisingly understudied topic in philosophy. However, there has been a flurry of interest in the subject over the past few decades. This article outlines the major theories of humor. It argues for the need for more publications on humor by philosophers. More specifically, it suggests that humor may not be a well-understood phenomenon by questioning a widespread consensus in recent publications – namely, that humor can be detached from laughter. It is argued that this consensus relies on a cognitivist account of emotion, one that is open to debate, and that it becomes unclear what sorts of phenomena a theory of humor is supposed to explain when one questions this assumption.

1. Introduction

Humor is a surprisingly understudied topic in philosophy. Joke-telling customs exist across cultures. Comedies are among the best reviewed and highest grossing films. Comedy shows such as, in the United States, The Daily Show, The Colbert Report, and Saturday Night Live play a key role not only in entertaining but shaping citizens’ perceptions of current events.1 Yet surprisingly, little has been written in philosophy on humor.2 This neglect is partly because of the difficulties involved in defining humor. It is surprisingly difficult to pin down a list of necessary or sufficient conditions for humor.3 The neglect of humor may also be a result of the fact that it seems to involve less momentous emotions than art forms such as tragedy or melodrama and less rarified esthetic experiences than the beautiful or the sublime. Elements of this bias can be traced back to Plato’sRepublic, where Socrates urges that the guardians should avoid laughter because it undermines rationality and self-control (Plato 58–9). Subsequent philosophers may have ignored humor because they took it to involve childish emotions that do not merit philosophic reflection.

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